È davvero difficile che un libro di economia si legga tutto d’un fiato. Eppure è quanto avviene con l’ultimo lavoro di Paolo Ferrero, significativamente intitolato La truffa del debito pubblico, pubblicato di recente da DeriveApprodi (pp. 156, euro 12). Il segretario di Rifondazione comunista ha, infatti, il dono di rendere assolutamente chiara una materia spinosa come, appunto, l’economia, spiegandone in maniera comprensibile a tutti i meccanismi, utilizzando anche grafici e tabelle in modo funzionale al discorso sviluppato, senza che appesantiscano il testo né complichino inutilmente i ragionamenti. Il tono è colloquiale e volutamente didascalico – vengono spiegati con precisione e semplicità tutti gli eventi e le espressioni utilizzate – ma senza che il lettore ne provi alcun fastidio, anzi.

L’argomento affrontato è l’enorme debito pubblico che grava sulle finanze del nostro paese. Ferrero si interroga innanzi tutto su come si sia formato e come sia arrivato ai livelli attuali. Tutto è iniziato nel 1981, quando «fu deciso il cosiddetto divorzio tra Banca d’Italia e ministero del Tesoro». Senza alcun atto o decisione del parlamento, grazie solo a uno scambio di lettere tra il ministro Beniamino Andreatta e il governatore Carlo Azeglio Ciampi, fu decisa l’indipendenza della Banca centrale. E subito «i tassi di interesse, pagati dallo Stato italiano per finanziare il proprio debito, sono schizzati alle stelle».

Una finanziaria di svolta

Fino a quel momento, infatti, i tassi di interesse erano concordati tra il ministero e la Banca d’Italia, che si impegnava ad acquistare al tasso prefissato tutti i titoli rimasti invenduti sul mercato. Senza più questa garanzia l’interesse sui titoli, che deve essere pagato dallo Stato, inizia a salire, superando il tasso di inflazione e, conseguentemente il debito comincia a gonfiarsi in modo esponenziale. Si passa così da un cumulo di interessi sul debito di circa sette miliardi e settecento milioni del 1980 a oltre diciotto miliardi nel 1981 e a più di 35 miliardi nel 1982 e così via, con cifre che salgono sempre più. Ferrero calcola che «grosso modo gli interessi medi che lo Stato italiano ha pagato dal 1981 in avanti sono pari al 4,2% in più del tasso di inflazione». Non solo, «la percentuale di spesa pubblica italiana che viene usata per pagare gli interessi è grossomodo doppia a quella della media europea».

A partire dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, allora, come dice giustamente Ferrero si può parlare di una vera e propria truffa per quel che concerne il debito pubblico. Erano gli anni in cui il «lungo Sessantotto italiano» volgeva al termine. Stava arrivando la stagione del cosiddetto «riflusso». Gli «anni di merda», li avrebbe definiti Nanni Balestrini in una sua poesia.

Ma per capire chi avrebbe pagato questa truffa in favore della finanza speculativa diventa importante un’altra data, quella in cui fu approvata la finanziaria – così si chiamava all’epoca quella che oggi si chiama legge di stabilità – del 1992, la famosa finanziaria «lacrime e sangue», come fu definita allora, varata dal governo presieduto da Giuliano Amato. Erano anni di tensione: il crollo del muro di Berlino di qualche anno prima, la caduta dell’Urss, tangentopoli, la strage di via D’Amelio a Palermo. Nel frattempo, d’intesa con i sindacati, era stata abolita la scala mobile, che prevedeva aumenti automatici di salari e stipendi a seguito del’aumento di prezzo di determinati beni. Poi la lira viene svalutata del 20-25%. Infine parte la manovra vera e propria che tra tagli, nuove entrate e dismissioni ammonta alla cifra record di 93.000 miliardi di lire. È facile comprendere che gli effetti legati alla svalutazione e agli aumenti dovuti all’inflazione si scaricano quasi del tutto sui salari, mentre «il meccanismo di trasferimento di denaro dal bilancio dello Stato agli speculatori procedeva a pieno regime». Per di più, l’anno successivo, «il sindacato firmò l’accordo sulla concertazione che inchiodava le richieste salariali all’inflazione programmata, che era sempre più bassa di quella reale». Inizia così a entrare nella sua fase più acuta quella cosiddetta «guerra di classe dall’alto» che ha visto e, purtroppo, continua a vedere l’offensiva contro il lavoro dipendente che ha condotto a una redistribuzione incredibile a favore dei più ricchi delle risorse e a un restringimento continuo dei diritti conquistati dopo lotte anche durissime. Il tutto in una situazione di avanzo primario del bilancio dello Stato, che incassa a partire da quel 1992 più di quanto destini alla spesa pubblica. Gran parte delle entrate, infatti, serve a pagare quegli interessi sul debito innescati da tutte quelle scelte compiute in passato. Una strada scellerata lungo la quale ci si continua a muovere anche oggi.

Da cittadini a sudditi

Il bel libro di Ferrero va avanti approfondendo il discorso e mostrando in maniera inequivocabile come e a vantaggio di chi si sono mosse le politiche del recente passato. E si conclude, dopo una disamina del Ttip – il Transatlantic Trade and Investment Partnership, l’accordo che stanno trattando praticamente in segreto Europa e Usa, e che rappresenta un ulteriore salto di qualità nel «togliere ai popoli ogni potere e trasformare i cittadini in sudditi, subalterni ai grandi potentati economici» – con una serie di proposte basate su due punti fondamentali: «la sovranità democratica degli Stati nazionali e la costruzione di un movimento politico di massa a livello europeo». Si tratta di proposte in gran parte largamente condivisibili ma che fanno sorgere almeno un dubbio, ovvero: siamo sicuri che la sovranità degli Stati nazionali sia ancora una condizione reale? Non è che nella ristrutturazione capitalistica ancora in atto le cose siano cambiate in maniera molto più profonda? E che le risposte da dare debbano, per così dire, muoversi su un altro livello di scontro? Ma tutto questo, evidentemente, ci porterebbe a un altro discorso, troppo lungo e complesso per essere affrontato in questa sede.