Non è vero che Washington ha abbandonato il Medio Oriente, la maggiore riserva mondiale di idrocarburi. Gli Stati Uniti, che hanno basi dalla Turchia all’Iraq, al Golfo, stanno combattendo la loro battaglia contro la Mezzaluna sciita e l’Iran. Adesso usano l’economia, gli aiuti militari e una propaganda intossicata per destabilizzare i governi della regione.

Il primo esempio è la Siria. Qui, dopo avere abbandonato i curdi siriani a Erdogan, hanno occupato i pozzi petroliferi di Deir ez Zhor, nominalmente per affidarli a loro, in realtà per privare Assad di una risorsa vitale. E visto che il maggiore fornitore di greggio di Damasco resta l’Iran – sotto sanzioni – è evidente quali siano le difficoltà per avviare una ricostruzione cui vorrebbero partecipare russi, iraniani, cinesi. E come se non bastasse Israele, beneficiata dagli Usa dalla legalizzazione degli insediamenti in Palestina, continua a bersagliare in Siria le postazioni iraniane e di Hezbollah.
Damasco, nei piani di Washington, non deve tornare nella comunità internazionale e l’Unione europea, obbediente, non ha tolto le sanzioni e riaperto le ambasciate.

L’Iran è ovviamente il bersaglio grosso. Le sanzioni, rimesse su spinta di Israele e Arabia saudita dopo l’annullamento da parte di Trump dell’accordo sul nucleare del 2015, stanno di fatto soffocando l’economia, il cui Pil è in discesa quest’anno di oltre il 9 per cento. L’export è crollato dell’80% e il rial, la moneta locale, è in caduta libera. A questo vanno aggiunti un’inflazione galoppante (+35%) e un tasso di disoccupazione che tra i giovani supera il 30%.

Le rivolte per l’aumento del 50% della benzina sono una conseguenza delle sanzioni ma hanno anche un’altra interpretazione. Se in Italia prendessero una decisione del genere cosa accadrebbe? Era evidente che un’impennata del carburante avrebbe generato proteste affrontate dalla forze di sicurezza con dozzine di morti. Perché un regime accorto, che tiene sotto occhiuta sorveglianza la popolazione, non ci ha pensato?

È ovvio che lo ha fatto. I vertici sapevano che il governo di Hassan Rohani, un conservatore moderato, sarebbe stato messo spalle al muro. E’ possibile che la Guida Suprema Ali Khamenei, pur appoggiandolo a parole, abbia voluto mettere in difficoltà un esecutivo che da tempo appare nel mirino dei Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, a loro volta sovraesposti in Iraq e Siria. Siamo di fronte non solo a proteste assolutamente comprensibili ma anche a un lotta di potere nemmeno così sotterranea. In Iran il prestigio dei religiosi è sempre più eroso dai Pasdaran: quella militare può apparire l’unica transizione possibile e “controllata” di un sistema ben poco riformabile.

La nuova leva degli Stati Uniti sta nelle rivolte popolari in Iraq e in Libano, due caposaldi della Mezzaluna sciita e della penetrazione iraniana che, leggendo i giornali americani, sembra una scoperta di oggi. Come se la caduta di Saddam nel 2003 non avesse significato proprio questo: l’ascesa degli sciiti, maggioranza della popolazione, e di una classe di religiosi e politici legata a Teheran da decenni di esilio in Iran e di relazioni con Qom, il Vaticano iraniano. E poi chi ha difeso il Paese dall’Isis? Il generale iraniano Qassem Soleimani, certo non gli Usa.

In Iraq, dove anche i russi hanno forti interessi con Gazprom e Rosneft, gli americani stanno facendo pressioni perché Baghdad allenti l’abbraccio con l’Iran e fanno capire che hanno diverse carte per destabilizzare un Paese dove 110mila iracheni in questi anni hanno lavorato direttamente per loro.

Più sottile ma non troppo l’operazione avviata in Libano, ancora prima delle manifestazioni, con il congelamento degli aiuti militari americani alle forze nazionali di Beirut, una manovra cominciata da Donald Trump più o meno in coincidenza con quella in Ucraina che ha condotto al processo di impeachment. L’obiettivo è far fuori dal governo gli Hezbollah, storica longa manus di Teheran, magari imponendo un governo di «tecnocrati» più docile ai voleri degli Stati uniti.

L’importante è vendere ai media, una «rinascita araba», un nuovo «nazionalismo» antipersiano da giocare contro Teheran.

Anche la finanza ha un ruolo. Il collocamento dell’Aramco in Borsa, gioiello della corona saudita, ha come scopo evidente quello di dirottare i capitali internazionali sulle monarchie fedeli a Washington, grandi clienti degli armamenti americani. Mentre all’Egitto viene lasciato un ruolo strategico per il gas da portare in Europa con la pipeline East-Med (Italia-Grecia-Israele). Con lo sfruttamento delle risorse offshore nel Mediterraneo orientale e di Cipro greca si tiene sulla corda un irritato Erdogan ma anche la Russia di Putin che si trova nuovi concorrenti per le forniture in Europa.

Così va il mondo: nella guerra alla Mezzaluna sciita vengono fatte intravedere fette di torta distribuite dagli Usa. Ecco perché tutto questo ci dovrebbe piacere. Eppure non ci piace.