«Solo una fra queste parole/conficcate nella terra/ha i segni dell’agave/forse deve essere perché/ha la foia di tagliare i pensieri/sull’orlo della lingua». È l’agave piena di spine che si trova tra i calanchi deserti della Basilicata, piante che gli asini mordevano dopo una giornata di fatica e che gli costava caro perché ragliavano straziati dal dolore per le spine conficcate sulla lingua e il palato. Una pianta che i contadini chiamavano, nel loro linguaggio immaginifico, «scannaciucce» (che «uccide» l’asino). Ed è proprio con questa titolo, Scannaciucce, evocativo di una stagione passata ma piena di rimandi al nostro tempo straziato che Domenico Brancale, poeta e performer che vive tra Bologna e Venezia ma con la sua terra d’origine nel cuore, ci consegna il suo ultimo libro, l’antologia completa delle sue poesie in dialetto lucano (Mesogea, pp. 192, euro 14).

DOPO LE RACCOLTE di Cani e porci, Canti affilati, L’ossario del sole, Incerti umani, questo volume, accompagnato anche da poesie inedite, restituisce tutta intera la grazia e la radicalità della poesia di Brancale. Una poesia che si nutre della terra stessa da cui è generata ma che non lascia scampo. Niente facili cantilene per sedurre un lettore, insomma, come usano oggi tanti poeti «à la carte».

Ma un canto spezzato, pieno di dolore vitale, sempre in cammino ai limiti dei burroni sdrucciolevoli della sua gioventù. «Alziamoci/ci hanno murati dentro» canta Brancale nel suo linguaggio evocativo di un mondo lontano in gran parte abbandonato per vivere altrove. «Vorreste farmi credere che esiste ancora quel paese/le mie orme un attimo prima dell’ombra» appunta a mo’ di rimprovero verso una terra amata ma parca di carezze. Ma con l’impossibilità del distacco, sia pure nella cristallizzazione amorosa, da un mondo che è semplicemente tutto, vita e morte, dolore e carica vitale.

«Mi radica il desiderio di una pietra/quella pomice/quella volta in cui il sasso/rinviene nella diga del cuore/e non affonda». Brancale ha il merito, che questa antologia fa risaltare, di aver scarnificato e riportato alla luce, ben prima della moda dei «luoghi», la terra lucana nella sua essenza più vera. E senza inganni o dolcezze, ricordando sempre di non essere «al sicuro dentro la parola».