La città dell’esposizione universale ha un serio problema di fede (e politica) che si trascina da anni, ma ormai il tempo stringe per cui astenersi laici impenitenti, leghisti e maldestri di varia natura: Milano presto avrà una grande moschea. Anzi, addirittura due. Ma forse no, forse ancora una volta tutto verrà rimandato a chissà quando, e i musulmani milanesi saranno costretti a pregare nascosti negli scantinati, nei garage o in locali improvvisati (magari ristrutturati e attrezzati, come era stato promesso in campagna elettorale dal sindaco Giuliano Pisapia). Altro che padiglioni dell’Expo per nutrire il pianeta, forse è questa la trattativa più complicata che la giunta oggi è chiamata a sbrogliare: dare entro il 2015 un luogo di culto ufficiale alla comunità islamica più numerosa (e divisa) d’Italia.

C’è un problema di non facile soluzione per l’assessore alle politiche Piefrancesco Majorino, che ieri, finalmente, si è incaricato di avviare le consultazioni di rito con i centri e le associazioni: l’islam milanese è diviso. Molto diviso. Non è un fatto locale, è materia complessa che interessa il mondo intero e che va trattata con una certa delicatezza. Ha un bel dire l’assessore che “va sollecitata la massima unità all’interno di un mondo che spesso si è presentato diviso e frammentato”. La storia non si norma. Per ora, stando così le cose, non si intravvedono facili vie d’uscita.

In campo ci sono due progetti. Uno, ultimo arrivato e non ancora ufficializzato da Palazzo Marino, dovrebbe prendere la forma di una moschea gestita dalle rappresentanze diplomatiche di Giordania e Marocco, su uno spazio privato e completamente autofinanziato (in viale Certosa). Poco male: due paesi, in accordo con le autorità locali, si pagano la moschea e diventerà cosa loro, un fatto quasi privato per cui nessuno ha da ridire. L’altra struttura, invece, l’oggetto della diatriba, sarà gestita dal Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano (Caim) e dovrebbe sorgere nell’area comunale dell’ex Palasharp, dove da tempo già pregano i musulmani che frequentano il centro islamico di viale Jenner.

Il progetto (due piani, ristorante, sala preghiera, parco) da tre anni viene discusso con la giunta milanese, ma c’è un dettaglio che oggi rimette tutto in discussione: ci sono importanti associazioni e comunità che non si riconoscono nel Caim e che chiedono a Palazzo Marino di lavorare per una soluzione che sia condivisa. Tra queste ci sono la comunità senegalese e quella marocchina (la più numerosa ), e anche la Casa della Cultura islamica di via Padova e la Comunità religiosa islamica italiana (Coreis), entrambe premiate con l’Ambrogino d’Oro. Tutte chiedono che il Comune di Milano non decida di far costruire la moschea “istituzionale” relazionandosi con un interlocutore unico. Il Caim, appunto. “Se quella moschea sarà costruita su un terreno pubblico – dicono – allora tutte le associazioni e i centri islamici devono essere inclusi in quel percorso”.

Yahya Pallavicini, vice presidente della Coreis, intervistato dal Corriere della Sera, ha suggerito che “nell’islam ci sono diverse sensibilità e rappresentanze” e che “volerle riunire è in qualche modo artificioso”. Come dire che incoraggiare e normare diversi luoghi di culto sparsi per la città sarebbe stata la scelta più razionale per evitare “guerre di religione”. Più esplicito, invece, Abdeljabbar Moukrim dell’associazione Al Quafila, da venti anni uno dei rappresentanti più in vista della comunità marocchina. Secondo lui il Comune di Milano dovrebbe spingere il Caim ad accettare un percorso collettivo e inclusivo, “altrimenti le associazioni che si riconoscono nel Caim si comprino uno spazio privato per costruire la loro moschea, così rappresenterebbero solo se stessi e non avrebbero la pretesa di rappresentare tutte le diverse componenti del mondo musulmano”. Il problema, spiega, è di natura politica. “E non vorrei che per una scelta sbagliata – dice – i musulmani milanesi dovranno passare i prossimi anni a doversi giustificare per fatti che non riguardano loro”.

Abdeljabbar Moukrim sostiene che il Comune di Milano, per “un errato calcolo elettorale”, non dovrebbe commettere l’errore di stabilire una relazione unilaterale con un’associazione che non nasconde di avere rapporti con la Fratellanza islamica e i salafiti in occidente. “Nel percorso suggerito – spiega – mai abbiamo chiesto l’esclusione del Caim, e nemmeno la non realizzazione della moschea, bensì una partecipazione corale e rappresentativa di tutte le realtà presenti sul territorio. La comunità islamica è composta da oltre 100 mila fedeli, che il Caim venga favorito come unico rappresentante è gravissimo e annulla di fatto la pluralità del mondo islamico”. Il Comune di Milano, nel frattempo, sottolinea che non un euro verrà speso dalla città per costruire la grande moschea. Ma i soldi, una volta tanto, sono davvero l’ultimo dei problemi.