Conquista simpatie in tutto il Medio oriente la «Grande fuga» dei sei prigionieri palestinesi dalla prigione israeliana di Gilboa due settimane fa. E cresce l’onda di emozione, unita a orgoglio e partecipazione, che attraversa i Territori occupati e coinvolge anche i palestinesi in Israele e nel resto del mondo. Per i palestinesi quei prigionieri non sono «terroristi» responsabili di fatti di sangue come insiste Israele, piuttosto sono eroi che con intelligenza e coraggio hanno sfruttato i punti deboli della sorveglianza per evadere, mettendo in imbarazzo Israele e i suoi apparati di sicurezza. E i racconti fatti agli avvocati dai quattro fuggitivi catturati una settimana fa dalle forze di sicurezza israeliane a Nazareth e a Shibli, in Galilea, alimentano una diffusa solidarietà nei confronti di chi è tornato dietro le sbarre e dei due evasi ancora liberi. Sui social abbondano i commenti sdegnati per le torture e le percosse che i detenuti denunciano di aver subito dopo l’arresto e durante gli interrogatori. Ma ci sono anche parole commosse per il racconto fatto da Mahmud Al Arda, il teorico della «Grande fuga», dei pochi giorni di libertà passati a nascondersi in campagna, tra piante di fichi d’India e alberi d’olivo, apprezzando colori e profumi come non aveva potuto più fare nei passati 22 anni trascorsi dietro le sbarre.

Storie che hanno ispirato l’artista Maitham Abdel in Kuwait che ha scolpito una mano che stringe non la chiave, storico simbolo del diritto al ritorno per i profughi palestinesi, bensì un cucchiaio, la posata che i sei detenuti hanno usato per scavare il tunnel sotterraneo che a inizio settembre li ha portati ad assaporare una breve libertà. A Gaza invece hanno girato un corto, a metà tra il film e il videoclip, con attori che interpretano i sei prigionieri mentre scavano la galleria aggirando i controlli delle guardie carcerarie fino all’uscita all’esterno della prigione. Nulla di paragonabile alle produzioni hollywoodiane ma l’autore Mohammed Thuraya e la sua troupe mettono in mostra una buona tecnica.

Tanta emozione e partecipazione non poteva non avere risvolti politici. Le varie fazioni provano a sfruttare la «Grande fuga» per conquistare, recuperare o consolidare il consenso. Fatah dopo mesi in cui ha visto precipitare a livelli minimi il sostegno tra i palestinesi a causa di alcune scelte sconsiderate del suo leader e presidente dell’Anp Abu Mazen, sfrutta la presenza tra i prigionieri evasi di Zakaria Zubeidi, suo comandante militare a Jenin durante la seconda Intifada, per diradare la nebbia che avvolge la sua immagine. Così la tv pubblica palestinese che, subito dopo la fuga dal carcere aveva adottato una linea a dir poco prudente, giorno dopo giorno è arrivata a una copertura continua della notizia, non solo nei tg, facendo di Zakaria Zubeidi un eroe di Fatah anche se tra i dirigenti del partito l’ex comandante delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa non ha mai goduto di grande stima ed era considerato una pericolosa mina vagante.

Hamas dopo il pieno di consensi fatti prima dell’estate con l’escalation militare con Israele e le posizioni assunte sulla crisi a Gerusalemme Est, in questo caso paga l’assenza di suoi militanti tra «eroi di Gilboa». Ad eccezione di Zubeidi tutti gli evasi appartengono al Jihad islami, organizzazione talvolta alleata, più spesso rivale del principale movimento islamico. Uno scarto che Hamas ha provato a colmare annunciando nei giorni scorsi che qualsiasi accordo con Israele per uno scambio di prigionieri includerà i nomi dei sei fuggitivi. Va all’incasso politico senza problemi il piccolo Jihad islami che vanta nel campo profughi di Jenin la sua roccaforte.

Jenin è al centro dei piani militari che Israele è pronto a mettere in atto per catturare gli ultimi due fuggitivi – forse si sono rifugiati nella città, relativamente vicina a Gilboa – e domare un centro abitato e il suo campo profughi che gli israeliani durante la seconda Intifada e ancora oggi chiamano la «fabbrica del terrorismo». Mercoledì, assicurando che i due palestinesi, ora o tra alcuni mesi, saranno catturati, il capo di stato maggiore israeliano Aviv Kochavi ha parlato alla tv Canale 12 della «possibilità di lanciare un’operazione militare su larga scala se aumenterà il numero di attacchi provenienti da Jenin in generale o dal campo profughi in particolare».