Dopo aver convocato le elezioni anticipate per il 20 settembre, Justin Trudeau si aspettava una campagna semplice.
La buona gestione della pandemia gli aveva permesso di raccogliere consensi e il suo rivale, il conservatore Erin O’Toole, era praticamente sconosciuto. Per ottenere la maggioranza in parlamento e liberarsi del governo di minoranza ottenuto nel 2019, poi, gli basterebbero appena 15 seggi. Ma le cose non sono andate lisce come previsto: O’Toole ha saputo tenergli testa e la ricerca dei voti si è rivelata complicata. Trudeau ha puntato tutto sul Québec – la provincia francofona e autonomista legata alla storia della sua famiglia –, che però gli si è rivoltato contro. Il capo del governo locale di destra, François Legault, ha detto che il Partito liberale, quello capeggiato dal primo ministro, è «pericoloso».

«Sono un nazionalista», ha ricordato, «voglio che il Québec abbia più autonomia e più potere. E ci sono tre partiti che vogliono darcene di meno»: i Liberali, i Nuovi democratici e i Verdi, ovvero l’intero spettro della sinistra canadese (con l’unica, scontata, eccezione del Blocco del Québec).

Il Québec è popoloso, assegna molti seggi e nel 2019 ha votato per i Liberali. Ma è una provincia imprevedibile, il cui orientamento politico cambia quasi a ogni elezione. Di solito i Conservatori non sono ben visti, ma stavolta potrebbe essere diverso: «ottenere maggiori poteri per il Québec», sostiene Legault, «sarà più facile con O’Toole che con Trudeau».

Il motivo di questa affermazione è una singola legge, tanto popolare in Québec quanto controversa al di fuori. Si tratta del Bill 21, approvato nel 2019, che vieta ai dipendenti pubblici (insegnanti, poliziotti, giudici) di indossare simboli religiosi sul luogo di lavoro, come hijab o turbanti. Per i suoi sostenitori, la legge tutela la storica laicità della provincia; per gli oppositori, invece, discrimina le minoranze e gli immigrati. Due anni fa Trudeau si mostrò contrario, dopodiché ha evitato di pronunciarsi per non rischiare danni d’immagine in una parte di paese cruciale per il successo elettorale. Ma una sua recente dichiarazione – ha detto di non poter escludere un intervento federale sul Bill 21, già sospeso da una corte provinciale – gli è costata l’attacco di Legault e il paragone con O’Toole, che assicura di non volersi intromettere negli affari del Québec.

Le elezioni anticipate hanno fatto riemergere le tante fratture del federalismo canadese, in cui le divisioni tra le autorità locali e quella centrale sono molto più marcate che negli Stati Uniti. Oltre al divieto dei simboli religiosi, il governo di Legault ha introdotto una legge per promuovere l’uso del francese nella provincia (in Canada si parla soprattutto inglese) e per dare al Québec lo status di «nazione», modificando la costituzione. Queste mosse autonomiste sono studiate con attenzione dall’Alberta, nell’Ovest, terra di petrolio e conservatorismo dove un paio d’anni fa prese piede un movimento separatista chiamato Wexit (da «western exit»).

Oggi le ambizioni si sono ridimensionate: la via dell’indipendenza è stata perlopiù abbandonata in favore della ricerca di una forte autonomia da Ottawa. Il governatore Jason Kenney, più moderato di altri ma difensore della «diversità» dell’Alberta, pensa allora che la sua provincia «dovrebbe emulare il Québec», perché se Trudeau riconosce che le azioni del Québec sono legittime, «significa che lo riconoscerà per l’Alberta». Il primo ministro cerca un parlamento unito per governare con più facilità, mentre la federazione canadese rischia di sgretolarsi.