Ci sono collane che diventano più rappresentative di altre. Una di queste è certamente la Piccola filosofia di viaggio di Ediciclo, editore di Portogruaro, in circolazione da vent’anni e nato per amicizia e scommessa di alcuni amici appassionati di ciclismo. La piccola filosofia ha traghettato in Italia un formato sperimentato con successo oltralpe dall’editore parigino Transboréal, di cui infatti traduce diversi titoli, appaiandoli a testi commissionati ad autori e viaggiatori italiani. Caratteristiche essenziali: il numero di battute, intorno alle 95 mila, quel che occorre a compilare libelli di cento pagine, che offrano visioni ed esperienze del mondo interessanti per lettori-esploratori. Costo contenuto, una bella fotografia in copertina, oggetti che spesso si trovano accanto ai registratori di cassa o nei punti strategici delle librerie dedicate alla montagna, alla natura, al viaggio. Oltremodo, lo stand della Ediciclo è fra gli editori cosiddetti indipendenti uno dei più visitati al Salone del Libro di Torino.

Uno degli ultimi titoli traghettati sugli scaffali è del francese David Lefèvre, classe 1973, brevi studi universitari e poi via sulle strade del mondo a capire, guardare, ricercare, in Sudamerica, partorendo libri quali Solitudes astrales, Chronique de la cabane retrouvé, e La vie en cabane. Petit discours sur la frugalité et la retour à l’essentiel, appunto La grammatica della sobrietà. Piccole rivelazioni sui piaceri dell’essenziale. Orbene è un fatto che le ultime generazioni abbiano scelto di percorrere la strada già percorsa da Thoreau e da tanti altri esploratori, avventurieri, viaggiatori. È sufficiente visitare uno dei tanti festival oramai attivi in giro per l’Italia per incontrare centinaia di persone che fanno del viaggio e del cammino un vero e proprio progetto di vita, adottando il pauperismo quale precettore personale e tascabile. Ne abbiamo scritto spesso in questa rubrica e ne scriveremo ancora. Pesco da Lefèvre che ne dimostra esplicita consapevolezza: «Vivere la prova della solitudine e della povertà in condizioni spartane mi fece un gran bene. Il soggiorno monacale in un luogo fatto su misura per me costituì un vero e proprio apprendistato sui confini, una sorta di noviziato» (pag. 19). Oppure: «Per potersi nutrire lontano dai tuoi simili, l’essere umano in ritiro impara a venire a patti con l’ambiente e a compensare le sue mancanze con trucchi e pratiche di adattamento (pag. 32).

Insomma quel che ne emerge è una volontà di mettersi alla prova, quasi di punirsi, di rifuggire le comodità e quel che accade nelle città e fra gli umani per dimostrarsi all’altezza di quell’uomo antico che ci abita ancora dentro, e che prende il posto dell’homo tecnologico e fluido a cui saremmo destinati per sopravvivere secondo la natura del nostro tempo. Si preferisce il bosco – una epidemia che mi vede coinvolto – e si preferisce la capanna, si preferisce la distanza, sognando un’irraggiungibilità che però non ha modo di compiersi: «Frutto del caso o della volontà, di breve durata o prolungati, i soggiorni in capanna spesso si impongono come momenti di rinascita (pag. 39) Abbandonare l’universo urbano, riconsiderare la campagna, come diceva Gaston Bachelard [filosofo francese], significa ritrovare il “senso della capanna”, ossia un modo agreste di abitare il mondo (pag. 87)». Certo un atto politico, sebbene al termine si rientri passando quasi sempre per realtà iper-urbane, come lo sono gli editori che ci pubblicano e i media che ne parlano. Tutto questo finisce per formalizzare una domanda che brucia: non è forse una contraddizione in termini? Uomo della natura, uomo della capanna, ma anche uomo da National Geographic, da Repubblica, da New York Times? Chi sei, davvero?