Alla fine, quello che è il nuovo sarà accusato di essere conservatore. Per un malinteso senso dell’avanguardia, per la resistenza di chi ha fatto la propria fortuna con i canoni flamboyant dell’apparenza, questa nuova tendenza Normcore, che le ultime sfilate di moda maschile per le collezioni della primavera/estate 2015 hanno descritto nella sua versione più raffinata, elegante e glamour, non è ancora arrivata sulla strada e già viene accusata di essere conservatrice, di esprimere un modo di vestire che si è arreso alla formalità borghese, o meglio piccolo borghese, del rapporto stanco-impiegatizio che da troppo tempo lega l’uomo al suo abbigliamento.
E invece, a ben guardare, non è così: questa tendenza al recupero del classico, questa necessità di pensare alla moda come a un qualcosa che non si urla ma si usa dopo opportuna meditazione, o meglio ancora questa urgenza di «fare moda aggiornando il capo perfetto», come dice Miuccia Prada descrivendo la sua collezione, è una presa di posizione contro l’ultima delle manie maschili, quella di delegare la rappresentanza del sé solo al corpo, alla sua avvenenza e alla sua trasformazione. Quindi, per la prossima primavera/estate la moda maschile vista sulle passerelle a Milano propone una riflessione: e se la moda fosse proprio quella mancanza di tipizzazione che, invece, tanto piace a chi per capire quello che osserva deve classificare tutto con delle etichette?

La riflessione è spinta anche dalle pressioni che arrivano dai mercati ricchi che tengono in piedi il Fashion System mondiale (Cina e Far East, prima di tutti; ma anche la Russia comincia a rifiutare capi di abbigliamento troppo caratterizzanti) dove chi compra moda la vuole di buona qualità, di ottimo taglio, dal design esclusivo ma non immediatamente riconoscibile. È lo stesso motivo per il quale molte case di moda non prestano più abiti alle e ai blogger, proprio perché l’inflazione data dall’esposizione su Instagram e social network fa perdere all’abito il valore aggiunto della esclusività.

Lo sanno bene molti marchi che a causa di questa sovraesposizione e a questa estrema riconoscibilità hanno perso una parte importante di percentuale di vendita proprio in quei mercati con alta propensione e disponibilità all’acquisto. Ecco, quindi, che questa tendenza Normcore non è una restaurazione ma una presa di coscienza. In pratica, sottotraccia l’assunto è: se l’abito deve rappresentarmi, almeno che sia un abito che mi permetta di differenziarmi dagli altri.

Spazzati via, allora, gli Hipster con la loro costruita eccentricità e gli Spornosexual (vedi ManiFashion del 21 giugno) questo uomo Normcore che si affaccia alla moda non è per niente il frutto di una normalizzazione. Anzi, i fashion designer lo vogliono come rappresentante di una nuova consapevolezza che lo porti a collegare il cervello con la stampante, cioè a rappresentarsi, anche attraverso l’abito, per la sua complessità di fisico e di pensiero e non attraverso il mascheramento di una divisa che lo omologa a un ambiente o a una tribù che lo restringono nel recinto ideologico e omologante di una chiesa. Con le dovute differenze, questo hanno fatto la maggior parte degli stilisti italiani, tranne quelli che ancora recepiscono le tendenze da quel calderone che registra solo il presente che sono i social network.

Gli altri, quelli che studiano le possibilità di un futuro plausibile, hanno creato attraverso un percorso che porta alla riattualizzazione di quei capi singoli che gli uomini possono desiderare per vestirsi. Lo ha fatto Miuccia Prada con la sua riflessione sul classico («Definire il classico è difficile. Semplificando, il classico è quello che sopravvive alla memoria di molte generazioni, che ha un senso per molte generazioni», dice).

Lo ha fatto Giorgio Armani, costruendo una collezione che riflette tutta la sua rivoluzione dell’abbigliamento maschile a partire dagli Anni 80. E poi Dolce & Gabbana, quando abbandona l’effetto delle giacche da torero e costruisce impeccabili completi in mille sfumature di rosso; Alessandro Dell’Acqua per N. 21 che si spinge al recupero del pizzo SanGallo per le camicie; Silvia Venturini Fendi con i suoi giubbotti a effetto denim ottenuti con incredibili lavorazioni di pelli; Frida Giannini che per Gucci rilegge la classicità di un ufficiale di Marina; Brendan Mullane per Brioni che ricama trame sul classicissimo Principe di Galles; Massimiliano Giornetti che per Ferragamo manipola i codici borghesi con l’arma dei tessuti aerei; Italo Zucchetti che per Calvin Klein prepara una collezione di abiti formali tutti in color carne, un trucco creativo che permette di annullare la forma stessa dell’abito in favore di quella del corpo; Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli che per Valentino (ha sfilato a Parigi) usano le stampe per camicie e pantaloni e li coprono con giacche e soprabiti di tessuto double profilati di pelle che servono a disegnare, dicono «la mascolinità effortless di uomini outsider e liberi pensatori».

Insomma, a suo modo, questo tipo di Normcore promette di essere una rivoluzione. Vedremo con quali effetti. Intanto, nella speranza di un cambiamento vero dell’attitudine maschile non ci resta che affidarci al pensiero di Giorgio Armani: «Il vero cambiamento ci sarà quando riusciremo a convincere un amministratore delegato a indossare una giacca disossata (destrutturata, ndr).
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