Il treno della metropolitana passa e non si ferma: «fuori servizio» c’è scritto in alto, tempo d’attesa per il prossimo 8 minuti. Due Italiani sulla banchina scuotono la testa stupiti, il «mito» (specie per noi almeno a livello di trasporto pubblico) dell’efficienza tedesca sta vacillando? Chissà. Certo è che l’austerity merkeliana qualche scricchiolio almeno di facciata lo ha provocato; e se ovunque campeggiano i manifesti che chiedono le Olimpiadi a Berlino – «Wir wollen Olympia», Vogliamo le Olimpiadi con la faccia di un bimbo biondo che riporta alla mente subito alter fierezze bionde del secolo scorso – capita al mattino presto, con il termometro sotto zero, di vedere gruppi di homeless (molti dell’est) vicino alle panchine come mai in passato e di rimanere a piedi perché, appunto, anche la Esbahn, la metropolitana di superfice si è fermata.

I giornali tedeschi – Taz, il socialista neus deutschland – hanno dedicato molto spazio alla ricorrenza (dieci anni) della morte di Hatun Surucu, la ragazza turca ammazzata per questioni di onore – aveva lasciato il marito dopo il matrimonio combinato a forza quando aveva sedici anni e un figlio) e stava con un ragazzo tedesco; «Uccisa perché voleva una vita normale» è uno dei titoli, a cui seguono grandi discussioni, molto difficili oggi con le notizie dal medioriente, la ferocia dell’Is e gli attacchi a Parigi, sull’integrazione. Germania in inverno parafrasando quel Germania in autunno che chiude con l’episodio di R.W.Fassbinder il film di Jean Gabriel Periot Une jeunesse allemande, apertura affollata e applaudita di Panorama Dokumenta (con festa clubbing al Marie Antoinette locale molto party-festivaliero).
Germania in autunno era uscito nel ’77 dopo il rapimento e l’uccisione dell’ industriale Schleyer e il suicidio nel carcere di massima sicurezza di Stammheim di Ulrike Meinhof, Andras Baader, Gudrun Ensslin e altri componenti della Raf, la Rote Armee Fraktion, il gruppo nato dal movimento sessantottino che scelse nella Germania ovest del dopoguerra di Brandt e Schmidt la lotta armata. Sono loro infatti i protagonisti del film di Periot che ripercorre una decina di anni di storia tedesca, dai primi sessanta al ’77, attraverso il montaggio di materiali di archivio, un lavoro di ricerca a cui il regista si è dedicato con passione molti anni.

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Chi sono Baader, Ensslins, Holger Meins e gli altri, tutti figli del nazismo, tutti nati negli anni Quaranta che si ribellano a una ricostruzione del proprio Paese che seppellisce gli orrori del recentissimo passato col divieto anche solo di parlarne? E al modello sociale di capitalismo spietato, repressione, controllo su cui costruire il futuro, del quale i giovani, sono la scommessa e la «ricchezza». Eppure saranno proprio loro a contestare, a cercare altre vie per dare una risposta a quel dolore acuto della Storia che fa paura affrontare.

Periot si affida totalmente agli archivi: non c’è un commento fuori campo declinato al presente, e lui non giudica la Storia che i materiali raccontano anche se ovviamente è il suo punto di vista che li tiene insieme. E cioè la scelta di tradurre questa esperienza in un immaginario collettivo che negli anni in cui accade appartiene a tutto il movimento nel quale politico è scendere in piazza e fare film, performance, teatro, dissacrare coi proprio corpi – cosa altro è lo sciopero della fame che ucciderà in carcere Meins, il cui corpo appare come lo scheletro dei prigionieri nei campi di concentramento? – e con le immagini il linguaggio comune dominato dai media sotto controllo dell’editore Springer. Il vissuto è un’arte provocatoria e disturbante nella sua ostinata proposta di un altro mondo dove stare.
Baader appartiene alla scena di ricerca, Ensslin fa film contro la guerra in Vietnam, alla nuova prestigiosa scuola di cinema di Berlino, vanto di Brandt, c’è anche Holger Meins, studente brillante gira un film (Oskar Langenfeld) su un vecchio operaio messo in un ospizio e trattato come un rifiuto umano. «Guarda diritto in macchina» dice all’uomo, Vertov è il maestro riconosciuto ma i loro riferimenti sono Marker e Ivens, la ricerca di una macchina da presa rivoluzionaria, che scende in strada e filma proteste, scontri, occupazioni tutto ciò che i media distorcono o oscurano (in Italia lo fa Alberto Grifi). Ecco dunque la visita dello Scià dall’altra parte, quella degli studenti picchiati selvaggiamente dalle sue guardie del corpo (sarà un film di Farocki con Meins) e poi dalla polizia o gli interventi contro le multinazionali che uccidono in Vietnam.

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Meinhof un po’ più grande degli altri è intellettuale riconosciuta, la invitano spesso nei dibattiti in tv sui «giovani» , lei a sua volta realizza servizi esplosivi (anche formalmente) sulla catena di montaggio e la sua alienazione, sugli incidenti sul lavoro. In un programma sui giovani e sulla crisi dell’autorità risponde: «Non possiamo riconoscere l’autorità dei nostri genitori che erano nazisti, o quella del governo che ha ricreato un paese senza giustizia». E se Gerd Conrad nel suo film fa correre per la città con una bandiera rossa (a ovest il partito comunista era proibito) i suoi ragazzi, qualcuno disegna provocatoriamente una svastica sul muro. La gente si infuria, lo insulta: ma quanti di loro non erano nazisti una manciata di anni prima?

Nel film ci sono anche Alexander Kluge, il suo primo corto all’origine del manifesto di Oberhausen, la nuova onda del cinema tedesco degli anni Settanta, venne censurato perché paragonava le architetture hitleriane a quelle del dopo guerra, e molti altri scrittori, intellettuali, tutti vicini al movimento degli studenti che quando poi inizieranno le azioni armate, fino al rapimento Schleyer, saranno accusati di averli sostenuti. Però come dice Boll il rischio è quello del deserto intellettuale se non si possono più esprimere opinioni – Straub e Huillet da quella Germania se ne sono andati, a Meins dedicarono il loro Mosè e Aronne.

La repressione sarà durissima, Baaader, Meinhof, Esslin e gli altri muoiono tutti suicidi in carcere ( e non ci crederà nessuno). Il film pur concentrandosi anche sul rapporto con le istituzioni – ancora una volta la risposta è nelle parole di Fassbinder, che se loro uccidevano o dirottavano aerei lo stato poteva rispondere diversamente – non cerca però risposte definitive, è questo il suo aspetto più riuscito, ne vuole soprattutto dare giudizi fuori dal contesto, tendenza che invece domina, almeno da noi, quando si affrontano questi argomenti.
«Possiamo solo essere rivoluzionari o diventare porci borghesi» declama in macchina una ragazza. È questo il passaggio alla clandestinità e alla lotta armata? Difficile capire fino in fondo, ed al tempo stesso mentre scorrono le immagini nell’aria dei tempi sembra la loro una condanna ineluttabile. Come è impossibile la ricerca di una felicità che appare assurda, stridente nella Germania di quegli anni, in una vergogna dell’essere tedeschi che loro, i figli, hanno preso su di sè.

Periot lascia libero il suo spettatore davanti i suoi dubbi e anche le sue riflessioni. Nella sua Gioventù tedesca non c’è nulla di facile e tantomeno di scontato, interrogare la Storia del resto non può esserlo mai.