Qualsiasi cosa se ne dica «la geografia si occupa essenzialmente di immaginario, e ciò che davvero conta in una mappa è proprio ciò che manca», scrive Matteo Meschiari nel suo ultimo saggio, Neogeografia. Per un nuovo immaginario terrestre (Milieu, pp. 159, euro 16,50). Ma che ne è dei saperi geografici davanti a macchine e algoritmi capaci di elaborare stradari, percorsi, cartografie? Meschiari, antropologo, geografo e scrittore, docente di geografia all’Università di Palermo, ne parla come della fine di un’avventura, un «esaurimento dello spazio, del tempo, della conoscenza».

QUINDI la geografia è morta? Che ce ne facciamo di un nuovo immaginario terrestre senza il divertimento dell’imprevisto? «Sono trent’anni che si sente dire che la geografia è morta, ma no, ancora non è morta», risponde Meschiari al manifesto. «Vero è che, in cerca di una nuova identità epistemologica, ha chiesto forse troppi consigli alle scienze sociali e ai cultural studies, perdendo di vista la propria specificità: lo spazio. Ma qualcosa si è concluso per sempre e la geografia deve reinventarsi».

L’impressione è che a mancare sia più di tutto una cultura della natura adeguata al mondo che abitiamo oggi – e ci sarebbe da chiedersi com’è possibile che ci siamo persi proprio quando sono arrivati i satelliti e Google Earth. «Il problema era già stato sollevato da alcuni geografi anarchici a fine Ottocento» racconta Meschiari, «ad esempio Elisée Reclus, che era abbastanza scettico sul primato della mappa e, nella sua Geografia Universale in diciannove volumi, insistette per pubblicare non solo cartine ma anche immagini del paesaggio, incisioni e in seguito fotografie. Una cosa scontata, per noi oggi, ma inedita per l’epoca». Bisogna mettere in conto i corpi per ripensare la geografia, immergerla «nel problema numero uno dell’età contemporanea, il collasso annunciato del sistema-terra», avverte lo studioso. Solo così «potremo restituire al geografo il suo ruolo culturale, la sua vera vocazione, non come scienziato dello spazio misurabile, ma come attore in una pratica comunitaria alla ricerca di soluzioni di vita».

In Neogeografia, Meschiari tiene insieme paesaggi assai diversi anche per i linguaggi con cui sono stati raccontati. L’Atlantico settentrionale della Navigatio Sancti Brendani, l’Europa medievale delle Chansons de gestes, il Nuovo Mondo di Jacques Cartier, la Liguria di Montale, l’India di Pasolini, la Bretagna di Kenneth White: in poco più di 150 pagine si concentrano mito, leggenda, poesia e letteratura di viaggio, oltre che, evidentemente, molti anni di ricerca.

UN PERCORSO denso di rimandi e citazioni che anche per come è strutturato vorrebbe forse funzionare a sua volta come mappa sentimentale per appassionati e studiosi, o semplicemente per tutti gli amanti del concetto di luogo. Ma come si fa a comunicare la geografia senza relegarla a un affare per specialisti? Secondo Meschiari tornando a chiedersi prima di tutto a cosa serve: «in questo libro ho voluto mostrare che l’esperienza dello spazio non è mai solo personale e culturalmente situata, ma ha a che fare con qualcosa che agisce nel corpo e nel cervello di chiunque. Il geografo non è solo un professore universitario che pubblica libri letti da alcuni colleghi, geografo è ciascuno di noi». Non si tratta di una frase a effetto, precisa, «nessuno può convincermi del fatto che oggi non siamo più gli stessi migranti spauriti di 150mila anni fa. Nonostante le tecnologie, le ideologie, le pratiche sociali che abbiamo inventato, abbiamo ancora paura delle stesse cose: l’ignoto, il futuro, il mondo che si nasconde dietro l’angolo».

Non è un caso se nel corso della trattazione il discorso di Meschiari si spinge oltre, probabilmente più a fondo, rispetto alle questioni strettamente disciplinari, fino al regno generativo di immaginari per eccellenza, la letteratura, alle relazioni possibili tra paesaggio e narrazione, arrivando forse a toccare la radice stessa della parola geografia – scrittura della terra, o che le appartiene, scrittura terrestre. Tanto da preoccuparsi della selvatichezza nella scrittura «non solo come tema ma anche come modo e forse vocazione di lasciare nel testo un elemento non addomesticato, non rifinito, non ripulito, lontano dal giardinaggio letterario dello stile, della lingua, da questo fare editing di tutto ciò che è bosco».

RESTA DA CAPIRE come lasciare il bosco nei nostri romanzi se questi poi diventano automaticamente minoritari perché disturbanti o perturbanti rispetto al senso di conforto che sono chiamati a fornire – come scrive nel suo In territorio selvaggio Laura Pugno, di cui Meschiari cita più volte i lavori. «Il romanzo egemone in Italia come all’estero continua a essere una storia di corna, di famiglia, di malattia, di luoghi alpestri e del buon tempo della nonna, che siano gli anni di piombo qui da noi o il Vietnam laggiù. Nel romanzo italiano, in particolare, manca il presente, e il presente è lo shift di immaginario generato dall’evento Antropocene. Un immaginario collettivo si sta formando, può essere una cosa bellissima o pericolosissima. Va mappato, compreso, in qualche modo vissuto. Il progetto «Tina», che ho inventato con Antonio Vena, nasce da qui: 50 scrittori per un lavoro collettivo sull’idea di collasso; 40 studenti universitari che stanno scrivendo su come loro, a vent’anni, si immaginano il futuro della Terra. Neogeografia è un libro pensato per chi vuole approfondire e discutere, ma il lavoro sul campo è più importante, ed è già cominciato».