Emanuela Rossi, dopo il corto iperrealistico Il bambino di Carla, ora esordisce con il lungometraggio Buio (dal 7 maggio disponibile in streaming sulla piattaforma Mymovies), un film autoriale di grande forza espressiva che sembra ispirato dai libri di Ballard, coraggioso e dal linguaggio innovativo. È la storia di tre sorelle, Stella Luce ed Aria, che vivono segregate al buio in casa perché fuori c’è una catastrofe ambientale, e di un Padre che vaga con lo scafandro in paesaggi post-urbani con il quale nascerà un conflitto.
Presentato alla Festa del cinema di Roma nella sezione «Alice nella Città» 2019,
Buio ha vinto il Premio Fioretta per il cinema italiano.

Lo scenario di «Buio» sembra quello cupo e distopico che stiamo vivendo, in questo senso di clausura, di soffocamento che vivono le tre protagoniste. Come nasce il film?
Molti spettatori che avevano visto lo scorso ottobre il film alla Festa del cinema di Roma allo scoppio della pandemia mi hanno chiamato stupiti, dandomi della veggente. Io no, non mi sono stupita. Da tempo sentivo che qualcosa stava arrivando, soffro per i cambiamenti climatici, sono terrorizzata dallo scioglimento dei ghiacciai. Soprattutto d’estate, negli ultimi quattro cinque anni, ho cominciato a pensare che presto per il caldo non saremmo più usciti e saremmo rimasti per sempre chiusi nelle nostre case, come in un romanzo di Ballard. Da qui l’idea delle finestre sbarrate. A questo si è unita la mia visione dei rapporti familiari non idilliaca, anzi, piuttosto claustrofobica. Vengo da una famiglia tradizionale marchigiana ed io ero esuberante, quindi il ricordo che ho di me bambina ed adolescente è di un carcerato che passa il tempo a pianificare la fuga! Buio è nato così, da un «soffocamento» privato e da un altro più sociale, ambientale, uno connesso all’altro, e i due soffocamenti si sono intersecati. Diciamo che soffro molto la costrizione.

Il tuo è anche un film sul padre, assente, proiettato nel mondo esterno, e autoritario. Come il referto intimo, privato, si trasferisce nella sceneggiatura e diventa parte del film?
In parte io contesto che Buio sia un film sul padre, secondo me è un film sulle figlie, in particolare la maggiore, Stella, interpretata da Denise Tantucci. Ma è ovvio che Il Padre, portando l’elemento maschile, focalizzi l’attenzione: è un’abitudine troppo radicata perché questo non accada. Però, nella sceneggiatura, con gli attori e anche sul set sono sempre stata attenta ad uscire dall’abitudine, a spostare l’attenzione e la macchina da presa più verso le ragazze. Anzi, forse questa è stata la vera molla del film. Negli ultimi anni ci sono stati film meravigliosi sulla costrizione familiare/sociale – il nuovo cinema greco, Lanthimos – però ogni volta soffrivo che il Padre fagocitasse tutto, facesse la parte del leone. In questo diciamo che Buio è un film, se non femminista, almeno femminile. Poi, certo, scegliendo un attore carismatico come Valerio Binasco, è vero che ho concesso anche a questo personaggio di essere potente, ma, come direbbe qualcuno, non è un buon sceneggiatore né un bravo regista quello che non parteggia per tutti i suoi personaggi.

Ne è emersa la figura di un uomo tormentato, combattuto tra il desiderio di proteggere le sue bambine dai pericoli esterni e l’incapacità di farlo senza essere un dittatore. E forse sì, un po’ di mio padre in questo personaggio c’è. Lui era un uomo di una generazione lontana, con il retaggio Dio Patria e Famiglia, in cui più o meno Padre coincideva con Dio. Poi era pure un uomo bellissimo, vitale, complesso, labirintico. E questa fascinazione credo di averla portata nel film. Però, come giustamente hai notato tu, in fondo il Padre è un’ombra, è sostanzialmente assente come i padri di quella generazione. Come il Padre/Binasco, che quando Stella lo confronta sparisce. È come se lui dicesse: «Io sono questo, se non accetti la mia protezione/dominio, allora sbrigatela tu!». Comunque, da quando il Padre se ne va, per Stella comincia una nuova era. Lo ammetto, la Stella che col casco protettivo va al centro commerciale sono io, quando sono arrivata al Dams di Bologna. Eppure, a fine film, ho pensato che mio padre mi mancava. Forse ho fatto il film per stare ancora un po’ con lui.

Le protagoniste del tuo film hanno nomi naturali, Stella, Aria e Luce. Si può leggere anche come una favola post apocalittica, ambientalista, come una forma di resistenza alla barbarie del mondo globalizzato?
Sì, un po’ della favola in Buio c’è: ho una bimba piccola, trattavo di bambine, o poi ero un po’ stanca di film d’autore sempre con gli stessi costumi, le stesse case… Così ho fatto indossare alle mie protagoniste camice da notte da Wendy, ispirate dalle immagini della grande illustratrice Nicoletta Ceccoli, il cui lavoro compare nel film, e le ho rinchiuse in una casa di fantasmi, con «sterilizzatori» e tunnel di decompressione. Però, come in tutte le favole, il nucleo di Buio è duro, violento, e, come dici tu, resistente. Alle mie protagoniste manca tutto, perfino le stelle, l’aria, la luce, il padre gliel’ha tolte, e loro resistono ricreandole in salotto. Ma, in fondo, nelle nostre società così avanzate, i bambini queste cose ce l’hanno? Il discorso sul patriarcato quindi s’intreccia a quello sul consumismo/globalizzazione, sistemi che accomuno nella rapacità, nel bisogno di «prendersi tutto». Il padre di Buio è un uomo cattivo, ma dice una frase chiave: «il mondo fuori è sporco, malato, lo hanno distrutto». Insomma, è tutto un sistema che non regge più. Tutto sta crollando. Lo stiamo vedendo in questi mesi. Il Padre continua a ripetere che l’Apocalisse sta arrivando, ma non è già arrivata, nei nostri centri commerciali più distopici di una navicella spaziale? Quale genitore, vedendo il mondo che abbiamo, non sente istintivamente il desiderio di sbarrare il portone di casa?

Certo, se leggi Ballard, Dick, Gibson o il recente Il libro di Joan di Lidia Yuknavitch entri più in quest’ottica. Ma non starci per me vuol dire essere ciechi (in Buio faccio proprio un discorso sulla cecità/visione). Io dico, c’era bisogno di arrivare a questa pandemia per accorgersi che qualcosa non andava? Non c’erano già i segni prima? Dipende da cosa uno vuol vedere. Ma purtroppo, come dice Amitav Ghosh nell’immenso recente saggio La grande cecità, noi occidentali siamo rimossi, ancora immersi nell’idea antica della centralità dell’uomo/logos che domina tutto, compresa la natura. E quindi, ad esempio, releghiamo ciò che è disastro naturale alla letteratura e al cinema di serie b, il cosiddetto «genere», mentre gli autori seri parlano di ben altro. Ebbene, forse è arrivato il momento di capire che questo è un grande abbaglio.

Il tuo film ha un inquietante effetto di realtà. La sua forza sta in questa continua minacciosità, nell’idea della fine, che è un pensiero di questo tempo, mi sembra.
Beh, io sono un po’ escatologica, fissata con l’idea della fine, quindi forse non faccio testo: ho perfino citato l’Apocalisse! In realtà, e torniamo al discorso dell’importanza delle ragazze, c’è tutta la parte centrale del film che vede le sorelle – soprattutto Stella – protagoniste di una vera e propria fase 2, un cammino di uscita dalla quarantena, di trasformazione e rinascita. Mi piace aver affidato questo percorso a una giovane donna, del resto ora nella pandemia le donne hanno dimostrato forza. Certo, Stella fuori non trova soluzioni, incontra solo dei coetanei, soli come lei (un mondo senza adulti, un po’ come per i ragazzi del «Friday for future»), ma almeno prende coraggio…. Anche se, purtroppo, le prove non sono finite e la Natura, alla fine, si manifesterà in modo violento.

Sì, perché io lo dico, sono preoccupata. La sensazione di pericolo incombente ce l’ho ancora, anche ora che la catastrofe che sentivo arrivare è arrivata e quasi finita. Vedo che, nonostante le tante, troppe parole che sono state dette, nonostante il disastro, niente è cambiato e nulla cambierà. E la natura, mi dispiace dirlo, ci trascinerà nel suo inabissarsi, come la prua del Titanic. La grande cecità, di cui parla Amitov Ghosh. Eppure, bisogna sempre sperare.