Grazie alla pluridecennale predicazione di Slow Food sono ormai in tanti ad ver capito che gastronomo non è il gourmet ma è quello che sa cosa è il cibo, non in astratto, ma qui e oggi, uno che è dunque consapevole non solo del piacere che può dare ma anche dei veleni che può veicolare. Il gastronomo che è stato educato da Slow Food è anche uno che ha scoperto come la sua presa di coscienza del danno crescente che minaccia gli alimenti è ormai condivisa, così come la voglia di unire le forze e metterle in rete per difendersi dai veleni e conservare il piacere. Scriveva don Milani nella sua famosa Lettera a una professoressa, nel mitico sessantotto di cui celebriamo quest’anno mezzo secolo: «Ho scoperto che il mio problema è anche quello degli altri. Uscirne tutti assieme è politica, uscirne da soli è avarizia». Vale a dire il più meschino e triste dei vizi. Di Slow Food, proprio per la capacità che ha avuto di costruire collettivi, di fare rete, di collegarsi con altri anche lontanissimi, sarebbe piaciuta a don Milani.

Quello che si apre domani a Montecatini, il 9° congresso nazionale di Slow Food, non è dunque un raduno di gourmet, e neppure di chi spera di salvarsi andando a cercare l’insalata buona nel proprio orto, ma l’incontro di chi ha deciso di fare politica, e cioè di agire assieme, collettivamente, per dare a tutta l’umanità da mangiare ma anche la gioia del gusto.

Far politica – se la si considera rapporto con gli altri per risolvere assieme i problemi che affliggono il mondo – è una responsabilità grossa. Significa impegno a lottare contro chi si oppone al proprio collettivo progetto. E quello di Slow Food – lo sappiamo – non ha solo simpatizzanti e entusiasti sostenitori, ha anche molti e potentissimi avversari. Anzi: sempre più potenti, perché i guasti del cibo non vengono dalla luna ma sono prodotti da quelle imprese che non vogliono rinunciare alla plastica per le cannuccie delle bibite e gli involucri degli alimenti, quelle che comprano terre e i suoi frutti non per produrre cose buone giuste e pulite ma crescente inquinamento, le grandi multinazionali che ammazzano i contadini e chi mangerà i loro cibi modificati. Non faccio nomi, li conoscete tutti.

Imporre delle regole e controllarne il rispetto è la partita che Slow Food ha ingaggiato, ed è una partita difficile. Molte cose sono state in questi anni strappate, soprattutto in termini di consapevolezza della dimensione dei problemi. Questo ha consentito alla lumachina di diventare popolare e prestigiosa, ma guai se si perde la coscienza di essere movimento di lotta in questa fase in cui l’affievolirsi della politica lascia mano libera più di quanto sia mai accaduto alla supremazia di un mercato sempre più autorizzato a considerare il profitto come il solo criterio che guida l’investimento e può farlo perché il costo dei danni che spesso produce non sarà l’investitore a pagarli ma la collettività tutta.

Il congresso di Montecatini, insomma, deve essere a tutti gli effetti, in questo non brillantissimo momento che vive il mondo, l’incontro di condotte fino in fondo gastronome e non, o meglio non solo, l’incontro di gourmet. Consapevole che Slow ha avviato una vera rivoluzione, che ha già fatto un bel pezzo di strada, ma non ha ancora vinto e occorre reclutare molto altro consenso per esser sicuri poter reggere la sfida (e come si sa le rivoluzioni non sono »un pranzo di gala»).