«Viviamo in un paese che ha solo un passato, e nessun futuro. Se sono un conservatore, è soltanto perché voglio preservare quello che considero il carattere di tale passato, della Gran Bretagna e del popolo britannico. Sono un immigrato ma in Inghilterra mi sento a casa. Ho passato più tempo in questa landa popolata da scimmie, in questa democrazia d’asini, che in qualunque altro luogo, e preferisco la sua atmosfera paesana di libertà e correttezza a quella di ogni altra nazione». Terminata la sua ode alcolica alla nazione, Mamoon stramazza sul pavimento del ristorante indiano dove ha riunito «una processione di mummie» per celebrare i suoi, ormai lontani, successi editoriali.

Prigionieri di una casa della campagna inglese circondata dal fango e da bianchi poveri e zoticoni che si sfogano sugli immigrati, Mamoon, un anziano scrittore indiano che si atteggia ad aristocratico britannico, già ammiratore della Thatcher e in piena crisi di ispirazione, si confronta con un giovane liberal inglese, Harry, che ne deve scrivere la biografia ma contemporaneamente tenere a bada i propri fantasmi familiari, compreso un padre psichiatra, mentre uno stuolo di figure femminili, solo apparentemente in secondo piano, complica le giornate e agita le notti, finendo per determinare l’esito dell’intera vicenda, dei due protagonisti.

C’è tutto Hanif Kureishi in L’ultima parola (pp. 302, euro 18), il romanzo che lo scrittore londinese, classe 1954, nato da padre pakistano e madre inglese, ha appena pubblicato in anteprima mondiale nel nostro paese per i tipi di Bompiani. Ci sono i giochi di prestigio delle identità multiple e mutevoli, l’ombra scura e incombente, anche se in misura minore rispetto al passato, della religione e del razzismo, l’amore e il sesso, i compiti da fare a casa sulla fedeltà, il matrimonio e l’inevitabile incoerenza della vita. Una commedia umana buffa e irriverente, dove si scorge traccia della curiosità intellettuale e del gusto per il gioco di Kureishi e del suo umorismo sferzante. Quasi un rimescolare le carte accumulate lungo una lunga e prolifica carriera condotta tra letteratura, cinema e teatro – dalla sceneggiatura di My Beautiful Laundrette di Stephen Frears del 1985, alla trasposizione sul grande schermo del suo Nell’intimità da parte del francese Patrice Chéreau nel 2003, passando per romanzi come Il Budda delle periferie e The Black Album -, per tirare in qualche modo le somme di questi intensi anni.

“L’ultima parola” è un romanzo ironico, anche se con molti risvolti amari, una commedia che gioca con simboli e abitudini della cultura inglese. Si è divertito a scriverlo?

Cerco sempre di divertirmi quando scrivo, anche quando sono impegnato con le scenaggiature cinematografiche che, a differenza dei romanzi, sono una vera sofferenza. A me piace pensare che scrivo commedie. Che metto insieme, a volte in modo buffo, a volte in modo più drammatico, personaggi che sprigionano ansie, paure, desideri e istinti di ogni tipo all’interno di un contesto, si tratti di un luogo degli affetti come di un posto concreto, che ne influenza le azioni e ne rende però tutto sommato divertenti, o detestabili, i gesti. Come ho fatto con quest’ultimo romanzo ambientato in una casa di campagna, isolata, in mezzo al niente, in cui un gruppo di persone rimangono in qualche modo intrappolate. Un po’ come le case in cui si svolgono i romanzi di Agatha Christie, dove i personaggi si ritrovano bloccati, prigionieri, prima di venire uccisi uno dopo l’altro.

A differenza dei suoi primi romanzi, segnati dalla presenza del razzismo e delle discriminazioni, in “L’ultima parola” si scorge una valutazione positiva della situazione britannica di oggi, fino alla bizzarra celebrazione dei valori nazionali fatta dal protagonista. È così?

Quella è una delle scene del romanzo che preferisco. Comunque, sì, credo anch’io come lui che la Gran Bretagna, malgrado il razzismo e molti altri problemi ci siano ancora, possa essere uno dei posti migliori dove scegliere di vivere. Soprattutto credo che si possa dire che il paese rappresenti tutto sommato un successo dal punto di vista del multiculturalismo: la Gran Bretagna di oggi è una società multiculturale che funziona. I veri problemi, le vere minacce, non nascono infatti quando si accetta di incontrarsi per quello che si è, ciascuno partendo da dove vuole e da come è fatto, dalle proprie differenze. Al contrario, sono le fantasie della purezza e della norma ad incasinare le relazioni sociali. Le idee più perverse e pericolose sono sempre quelle che si presentano sotto l’aspetto della difesa del senso comune, di un’idea di normalità fissata a tavolino e una volta per sempre. Come può sorprendere o stupire il fatto che siamo multiculturali, che la nostra vita quotidiana, la nostra esperienza di ogni giorno si nutra di elementi e segnali culturali tra loro lontani o diversi? A sorprenderci davvero e a preoccuparci tutti dovrebbe essere piuttosto il fatto che c’è ancora qualcuno che vuole imporci una «normalità» che dovremmo farci andare bene a forza, anche se non ha niente a che fare con noi. Il vero problema, oggi, è il fascismo della normalità che trova sempre nuovi adepti.

Sull’onda del caso Rushdie e per rispondere alla fatwa pronunciata contro lo scrittore nel 1989 dall’Ayatollah Khomeini, lei pubblicò “The Black Album”, la storia del giovane Shahid sedotto dai fondamentalisti. A più di vent’anni da quegli eventi come le sembra siano cambiate le cose?

All’epoca sentii il bisogno, quasi la necessità, di scrivere di ciò che era accaduta ai Versetti Satanici e al loro autore. La minaccia era forte e concreta. E purtroppo credo che le cose non siano cambiate poi molto in tutto questo tempo. La forza e il potere dell’obbedienza religiosa semmai sono aumentate, invece che diminuire. Il fondamentalismo rappresenta una soluzione fantastica per ogni tipo di problema, basta essere ubbidienti e osservare «le regole» e si risolve tutto: l’individuo in quanto tale non esiste più, non ha alcun responsabilità né dubbi, un po’ come accadeva con il socialismo reale. Prendiamo il caso di un paese come il Pakistan, il paese da cui veniva mio padre, e dove sono stato solo l’anno scorso. Oggi è praticamente impossibile per un politico pakistano proporre una soluzione a un qualunque problema sociale che non sia inquadrata, o meglio inquadrabile, nell’ambito dell’islam. La religione domina tutto e tutti. E l’esempio potrebbe valere per molti altri luogi del cosiddetto Terzo mondo dove l’ideologia del fondamentalismo religioso ha preso il posto del marxismo di Stato, ma ne ha conservato, se non accentuato ancora di più, la ferocia nei confronti dei singoli.

Anche lei ha cercato di esplorare nuove vie di espressione, collaborando ad esempio con un musicista come David Bowie. Che effetto le ha fatto la notizia della morte di Lou Reed?

L’ho saputo mentre mi trovavo qui in Italia. Ho letto con tristezza le cose terribili che hanno scritto su di lui i tabloid inglesi che lo hanno accusato di aver «esaltato» nelle sue canzoni la droga, la prostituzione, l’omosessualità, il travestitismo e via dicendo. In realtà, Lou Reed raccontava una New York alla Jean Génet, guardava all’America dall’orizzonte delle sottoculture urbane. Anzi, direi che è stato il primo a portare questi elementi nella musica rock e nella cultura mainstream. Senza di lui non ci sarebbero stati né Bowie né Madonna, il punk e la pop culture così come la conosciamo oggi. Per noi ragazzi della periferia londinese degli anni Settanta, un posto che sembrava fermo dal punto di vista culturale, Lou Reed e il rock rabbioso e ribelle che venne dopo di lui, rappresentarono soprattutto il segnale che si poteva trasformare se stessi ancor prima di dover pensare di cambiare il mondo. Si poteva cercare di vivere tutte le proprie diverse identità allo stesso tempo. Era proprio di questo che parlava Lou Reed, del resto uno dei suoi dischi che amo di più si intitola proprio Transformer. Nei miei romanzi mi sono misurato spesso con questi argomenti, fin dal personaggio di Karim, il giovane immigrato pakistano omosessuale protagonista de Il Budda delle periferie che sogna di costruirsi una nuova identità attraverso l’arte e che guarda caso finirà per trasformarsi proprio in un’icona pop.

Ne “L’ultima parola” descrive uno dei simboli dell’identità britannica, la campagna delle magioni dell’aristocrazia come un posto infernale dove si passa il tempo ad evitare di scivolare nella melma che ricopre ogni cosa…

Non posso negarlo, credo di essere proprio un tipico city boys. So pochissimo della campagna inglese, ci sono stato di rado e devo confessare che non sono nemmeno tanto curioso di andarci o di conoscerla meglio. Per cui è probabile che guardi con un atteggiamento di accondiscendenza se non con un tantino di senso di superiorità metropolitana, anche se non è voluta, a questo mondo che ancora si interroga sul modo di far sopravvivere la caccia alla volpe e i presunti «valori» che tutto ciò incarnerebbe.

Lei ha sempre detto di considerare Londra la sua «patria», di sentirsi londinese più che inglese. Qual è la sua Londra?

Non lo so ancora, la sto ancora cercando. Sono nato e cresciuto a Bromley, un sobborgo della periferia sudorientale di Londra, dove negli anni Cinquanta vivevano soprattutto le famiglie degli immigrati asiatici, mentre a Notting Hill c’erano i giamaicani. Poi, pian piano, ho cominciato a spostarmi verso il centro. Dapprima per seguire i concerti o per frequentare le librerie. Quindi, grazie al fatto che i miei libri e le mie sceneggiature mi hanno fatto guadagnare bene, per trovarmi una casa e viverci con i miei figli.

Oggi che abito non lontano da King’s Road, da quello che si è sempre considerato come il centro, mi rendo conto che il cuore pulsante della città, i luoghi di incontro giovanile, le gallerie d’arte, i teatri, si sono nel frattempo spostati verso altri quartieri, verso l’Est della metropoli. E così, mi ritrovo ancora una volta in periferia. È buffo, ma è come se mi ritrovassi di nuovo da dove sono partito, forse è solo uno scherzo del destino. Perciò, la mia Londra ha ancora una volta soprattutto un profilo multiculturale che si rinnova in più ci continuo con l’arrivo di nuove comunità. Dove vivo ci sono moltissimi africani, gente dell’Europa dell’Est e tutte le stratificazioni delle immigrazioni «coloniali» dal Sub continente indiano come dalla Indie occidentali. Del resto è questo che ha sempre reso affascinante Londra, il suo essere una metropoli piena di gente diversa ma che è capace di vivere pacificamente insieme e dove le differenze sociali, a differenza di posti come New York dove orami ci sono sono poverissimi e ricchissimi, non sono poi così estreme. E in fondo che cos’è la Gran Bretagna se non una metropoli multiculturale con un po’ di terra intorno? Una delle più grandi città del mondo che sorge su un’isolotto.