Se si parla di Hermes e quindi di Mercurio in relazione alla parola scritta, non si può non pensare a Calvino e alle sue Lezioni americane, in cui lo scrittore associa il dio al tema della rapidità. Tuttavia, senza offesa all’autore de «Le città invisibili», la potenza di un riferimento del genere certamente non si può esaurire nella sola idea della sintonia con il mondo attorno a noi. Ci deve essere altro, quantomeno una variazione. Per questo motivo non si può che leggere con piacere il volume di Stefano Cristante, «L’icona che delira», e specificatamente lo scritto iniziale, «Ricognizione su Hermes», dal momento che si presenta come una specie di chiave interpretativa applicabile agli altri saggi nel libro (si va da Bosch ai fumetti, ma non si escludono classici come Shakespeare, e nomi moderni come Walter Benjamin ma, anche, Carmelo Bene). Ora, perché è interessante il punto di vista di Cristante su Hermes? Perché ci ricorda come la funzione mitologica del dio sia sì il raccordo tra la diversità di determinati contesti e situazioni – Cristante la chiama «complementarietà divina universale» – ma lo sia a partire da caratteristiche quali una certa autonomia, «l’abnorme movimentazione e la compressione temporale». Da qui l’impressione che Hermes possa fungere da icona in grado di patrocinare una esperienza comunicativa tendente al delirante, cioè potenzialmente capace di eccedere la sua configurazione formale.

È a partire da questa sorta di «funzionalismo» che si possono poi leggere ed apprezzare gli altri saggi del libro. In merito, quello su Bosch e il suo Trittico delle delizie è sicuramente il più corposo e probabilmente il più puntiglioso, per come l’autore – professore di Sociologia della comunicazione all’Università del Salento – ha ricostruito tutto un contesto socio-culturale dietro alla genesi dell’opera, soffermandosi anche sulle letture possibili dell’artista, arrivando alla fine a considerare lo stesso Bosch come un autore «a cavalcioni tra due mondi», il cui ermetismo farebbe quindi rima con anacronismo.

Come poi anticipato, oltre alla ricognizione sul celebre pittore olandese, Cristante ci presenta letture che spaziano su argomenti diversi. E qui viene da dire che è molto interessante – e molto bello – che ci faccia leggere anche sue riflessioni sul fumetto, americano e italiano, focalizzando l’attenzione e l’analisi su aspetti che magari si potrebbero definire marginali o di nicchia, ma che comunque rimandano a certe caratteristiche associabili alla funzione mitologica di Hermes-Mercurio («il raccordo» tra Buck Rogers e Flash Gordon; l’«autonomia» di un personaggio – Corto Maltese – nei confronti del suo autore).

C’è poi da citare sicuramente il saggio su Benjamin, o meglio l’interpretazione che offre del filosofo e scrittore tedesco attraverso la corrispondenza di questi con Gerhard Scholem. Ora, al di là della opinione che ognuno di noi può avere sull’autore de «L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica» – dovunque si vada, dentro e fuori l’Accademia, nel bene e nel male, è sempre uno dei nomi importanti – quanto scritto da Cristante, per tono e struttura, ha un che di accattivante. Quantomeno nella misura in cui il montaggio tra le lettere e le riflessioni restituisce qua e là le impressioni di «abnorme movimentazione» (un discorso che si muove in diverse direzioni) e «compressione temporale» (un discorso in velocità, con un gusto per l’ellissi e la sintesi), e cioè alcune delle caratteristiche che vengono associate ad Hermes.

Per finire, vale la pena menzionare il breve intervento su Bene per due motivi. Il primo perché permette di ricordare che Cristante è il presidente del «Centro Studi Carmelo Bene», ovvero un progetto nobile per ricordare in maniera attiva – cioè tramite iniziative – l’opera di una delle più radicali figure appartenenti alla cultura italiana e non solo. Il secondo perché quanto scritto dal sociologo sembra assomigliare all’inizio di un possibile studio originale sul «grande artefice», qualcosa che potrebbe fornire una variazione interessante alla letteratura sul tema, dal momento che si parla della relazione tra genio e genius loci attraverso, se si vuole, una formula felice («il luogo è il messaggio»), e senza rischiar tanto di ripetere quanto già spiegato da altri al riguardo, cioè da P. Giacchè nella sua monografia sul salentino (la lettura del «Sud del Sud dei santi» attraverso la nota lezione antropologica di E. De Martino).
Insomma, verrebbe voglia di leggerne di più.