L’apparenza non è tutto, ma per i prodotti freschi venduti dalla grande distribuzione organizzata l’estetica è ancora l’unico criterio con cui viene commercializzato un prodotto. Questo vale in modo particolare per la frutta, come spiega il nuovo rapporto dell’associazione Terra!, curato dal direttore dell’organizzazione Fabio Ciconte con il giornalista Stefano Liberti, già redattore del manifesto.

La ricerca è l’ennesimo capitolo dell’inchiesta che Terra! porta avanti da oltre sette anni per indagare i meccanismi che governano l’economia del cibo, ricostruendo le filiere alimentari dal campo allo scaffale del supermercato. Nel 2015, con la campagna #FilieraSporca, l’associazione ha collegato per la prima volta lo sfruttamento dei braccianti alla distribuzione iniqua del potere di mercato lungo le catene produttive, trasformando un fatto di cronaca in una questione di politica economica.
Il dossier – lo trovate su associazioneterra.it – va ad indagare l’impatto delle regole di commercializzazione e dei sistemi di mercato sull’agricoltura, che si trova costretta a produrre frutta sempre (esteticamente) perfetta per riuscire a venderla ai supermercati. Questa impresa è però resa sempre più difficile dagli effetti della crisi climatica, che rende la produzione irregolare e i prodotti meno omogenei per forma e dimensione. Per una decina di prodotti ortofrutticoli, tra cui i 4 oggetto di analisi nel rapporto – sono pere, mele, arance e kiwi – esiste una sorta di «selezione all’ingresso» sul mercato, data dal Regolamento UE 543/2011, poi modificato dal 428/2019. Fino al 2008, la norma stabiliva anche la curvatura massima di cetrioli e carote, intervenendo su 26 prodotti ortofrutticoli. Secondo Terra! si tratta di un «fenomeno distorsivo, che provoca un calo del reddito degli agricoltori».

ECCO PERCHÉ NELL’ANNO INTERNAZIONALE della frutta e della verdura (il 2021, anche se non ce ne siamo al momento accorti, il copyright è dell’assemblea generale delle Nazioni Unite) esce un’inchiesta che facendo luce sul settore può aiutare a realizzare gli obiettivi che l’Onu s’era data: aumentare la consapevolezza dei consumatori sui benefici del consumo di frutta e verdura e «indirizzare la politica alla riduzione delle perdite e degli sprechi di questi prodotti». Il tema dello spreco, però, va guardato in profondità e in controluce: ciò che spesso si dimentica quando si affronta questo aspetto è che a varcare la soglia del nostro frigorifero e dei supermercati sono solo i frutti più belli, lucidi e rotondi. Una parte significativa dell’enorme produzione mondiale non può accedere al mercato del fresco, perché ogni frutto deve rispondere a standard di commercializzazione e a severe norme europee, che non tengono conto dei tempi e della variabilità della natura e, soprattutto, degli effetti della crisi climatica sul comparto.

PERE, ARANCE E KIWI possono aiutare a indagare come le norme stiano affossando un comparto: l’impianto generale del Regolamento impone che i prodotti siano interi, sani, puliti, privi di parassiti, ma poi si va a sindacare anche sulla colorazione della buccia, sul calibro (il diametro) e sull’omogeneità dell’imballaggio, privilegiando l’attenzione alla forma estetica. Per differenziare i prodotti, le norme hanno introdotto categorie merceologiche: «Extra» e «I» rappresentano la prima scelta, quella che troviamo più frequentemente, «II» è la seconda scelta, che non è affatto sinonimo di qualità inferiore come si tende a credere. Tuttavia la II categoria non trova quasi mai spazio nei supermercati e viene venduta nei mercati ritenuti più poveri, come i Paesi dell’Est Europa, quando non viene svenduta alle industrie di trasformazione per farne succhi di frutta.

Ecco com’è successo che la produzione di pere in Emilia-Romagna negli ultimi 15 anni ha visto calare le superfici di 6.000 ettari. Poi c’è il kiwi, la cui produzione a livello nazionale ha registrato dal 2014 al 2019 un calo di quasi 100 mila tonnellate, a causa di una malattia che sembra propagarsi, secondo alcuni studi, proprio per l’aumento delle temperature.

FORSE L’ESEMPIO PIÙ TRAGICO riguarda le arance. Nel ventennio 2000-2019 queste hanno perso il 20 per cento delle superfici coltivate: si è passati da 107 mila ettari a 82 mila coltivati e la produzione agrumicola è scesa da 3 milioni di tonnellate a 2,6 milioni di tonnellate. Una riduzione preoccupante, esacerbata da un virus e da fattori ambientali ma rafforzata dalle pratiche di acquisto della GDO. Nell’annata 2020-2021, spiega il dossier, la produzione è stata abbondante ma la siccità ha portato allo sviluppo di prodotti più piccoli del solito, poco apprezzati dai distributori. La crisi del settore alberghiero e della ristorazione e la chiusura delle mense scolastiche – per la pandemia – hanno reso difficile assorbire i frutti più piccoli. Gran parte è stata quindi destinata all’industria di trasformazione, con una riduzione dei redditi degli agricoltori. Nei supermercati, intanto, sono finite arance spagnole.

LA FRUTTA VALE LA METÀ DEL VALORE della produzione ortofrutticola, oltre 5 miliardi di euro. Dietro questi numeri, si nascondono sforzi e criticità che non legge chi percorre le corsie dei supermercati, dove le cassette sono sempre piene di frutti perfetti e omogenee. Secondo Terra!, è tempo di abolire i vincoli imposti dalla normativa europea sul calibro dei prodotti, così come è stato fatto per gli altri prodotti agricoli. Allo stesso tempo, le istituzioni devono porre un freno a questa deriva attraverso una normativa chiara e diretta, che valorizzi la vendita di frutta e verdura «brutte» senza andare in deroga alle direttive europee. La legge dovrebbe individuare strumenti per favorire la vendita e la valorizzazione di prodotti freschi e sani nella GDO. A prescindere dall’estetica. Tra gli attori della grande distribuzione interrogati da Ciconte e Liberti per il rapporto, solo Coop scrive che già sta lavorando sul fronte dei frutti più brutti o non calibrati. Cita due campagne: nel 2020, a favore del consumo di clementine di calibro piccolo; nel 2018, con le mele dopo grandinate eccezionali di quell’anno. Ma segnala che queste iniziative servono ad «aiutare i nostri produttori a vendere il prodotto anche in caso di annate eccezionali in termini qualitativi». È il segnale che al cambiamento manca ancora un passaggio. I frutti «brutti» – è uno dei messaggi chiave del dossier – non sono da buttare.