Chissà se i fan della serie, vedendo il nuovo (e attesissimo) film, riusciranno a perdonare al suo regista il fatto di essere già al lavoro al reboot del rilancio di Guerre stellari? Tra «trekkisti» e appassionati delle Star Wars di George Lucas, infatti, la rivalità è notoriamente insormontabile. Anche se l’eclettico Abrams sembra l’unico in grado di conciliare gli opposti, e di concentrare nelle sue mani i due filoni fantascientifici più globalizzati di Hollywood, abilissimo nel rifondare mitologie pop – come ha dimostrato col precedente Star Trek – per le nuove generazioni contaminando gli «originali» con molte e diverse suggestioni, citazioni cinefile, programmi tv di culto, ammiccamenti al sentimento contemporaneo. Lost insegna.

La nuova avventura ci riporta ancora una volta nella giovinezza del comandante Kirk, del rigidissimo Spock, di Sulu, Bones, Uhura e Pavel Chekov e dell’Enterprise, in un salto spazio/temporale prima della serie televisiva creata negli anni sessanta da Gene Roddenberry – di cui Abrams si dichiara a sua volta fan.

La terra non è tornata a una preistoria rigogliosa sviluppando implacabili anticorpi contro il genere umano (come accade in After Earth di M. Night Shyamalan), e l’Enterprise continua i suoi viaggi alla ricerca di nuovi confini. Kirk e gli altri sono esploratori come vuole la filosofia del loro progetto: «Conoscere universi ignoti, cercare nuove vite e nuove civiltà, avventurarsi laddove nessuno è mai arrivato» con tutta l’ambiguità che ciò comporta. C’è infatti chi manovra nell’ombra, qualcuno che è più vicino a loro di quanto sembri per far scoppiare una guerra «necessaria» manipolando vecchi nemici e risvegliando temibili armi «chimiche». E forse è per questa minaccia all’innocenza, e all’intera Federazione Planetaria, una sorta di Nato galattica, che Abrams vira le tonalità del film (scritto insieme ai «soliti» Alex Kurtzman e Roberto Orci ai quali si è aggiunto Damon Lindelot) al cupo; un’atmosfera notturna (che guarda a quella del Batman di Nolan), costruita sul nemico, il vero protagonista, il terribile Khan, una macchina per uccidere progettata secondo le teorie più avanzate del superuomo che viene dal passato. Folle e invincibile – incarnato con lucido senso del pericolo dall’attore inglese Benedict Cumberbatch.

È lui che dovranno combattere Kirk (il biondo un po’ stupefatto Chris Pine) e il suo fedelissimo vice con le «orecchie a punta», il vulcaniano Spock che non può mentire e che sa sottomettere le sue emozioni al dovere.

Se la guerra fredda era il riferimento fondante per Roddenberry, nelle tenebre di Star Trek come ormai in molti blockbuster, il riferimento quasi obbligato è l’11 settembre (visivamente esplicito nei crolli digitali dei grattacieli) con le reazioni della società democratica alla paranoia di un nemico invisibile. Del resto cos’altro è quel timore indistinto che fa sudare paura offrendo il terrestre come vittima sacrificale ai pungiglioni letali del mostro di After Earth?

Ma Abrams si spinge oltre, e sulla sua astronave rivisita e riutilizza come un ready made apocalittico tutti i possibili generi e archetipi del cinema hollywoodiano. Dal mito fondante, quella frontiera della conquista – di cui l’Enterprise è l’ ennesima variazione – all’eterno rapporto padri-figli. Il Bene e il Male, che ha forma umana e arriva (guarda un po’) dal nostro passato … Il ribelle Kirk che rischia la vita sua e dei suoi uomini per salvare Spock, è il figlio ideale dell’anziano generale che lo ha scelto proprio per questa sua indole indocile ma di sicura utopia. Spock però gli fa rapporto, ed è l’inizio del film, visto che il suo senso delle regole è più forte. Non è questa l’eterna amicizia di sfida e complicità che lega i cow-boy eternamente?

Le figure femminili i sono ma sono o fidanzate noiose, o inutili come la bionda figlia del cattivo generale Marcus (Peter Weller). In passato sarebbe stata l’ostaggio che avrebbe rallentato il malvagio, ma nel futuro non funziona più perché verrà teletrasportata. Star Trek, anche negli anni Duemila, rimane un mondo maschile, visto come il terreno privilegiato di applicazione dei generi, pure nel loro rovesciamento. Abrams è qualcos’altro che «postmoderno», l’idea vincente è spettacolarizzare in chiave semplice l’immaginario, come se la la bolla temporale di quarantasette anni, tra il 1966 e il 2013, abbia assorbito tutti gli sviluppi della serie nella storia del cinema e della tv. E sembra quasi divertirsi a iniettarvi digressioni che hanno come centro sempre l’amicizia virile.

. Mentre il cattivo, che ha ammaliato Kirk provocandolo col suo mistero, gli ridarà vita …[do action=”citazione”]Kirk e Spock insieme oltre il tempo, fino al melò queer, in cui sfiorandosi la mano a rischio di morte una lacrima da dietro il vetro che li separa scivola persino sulle gote dell’impassibile Spock[/do]
Il problema è che tutto appare come è, programmatico e rigidamente impostato. Mai un guizzo pure nelle curve. Eppure anche gli archetipi possono ancora conservare qualche mistero.