Agata Christie incontra John Carpenter. Per la sua nuova avventura di archeologia cinematografica Quentin Tarantino rispolvera anche un formato che non si usa più (il 70mm Ultra Panavision in cui vennero girati Ben Hur e Questo pazzo pazzo mondo) e gli obbiettivi «d’epoca», riadattati dallo spericolato direttore della fotografia che condivide con Martin Scorsese, Bob Richardson.
L’immensa distesa bianca (le montagne del Wyoming) che appare davanti ai nostri occhi, è «macchiata» solo da un diligenza che avanza lentamente nella neve e, sulla sinistra delle schermo da una croce di legno scuro, che sembra aspettarla al varco.

A bordo, «il boia» John Ruth (Kurt Russell) sta portando «la prigioniera» Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) in città, dove riscuoterà una grossa taglia. Nel tragitto si uniscono a loro Marquis Warren (Samuel Jackson che gioca a Lee Van Cleef), un maggiore dell’esercito nordista che porta in tasca una preziosa lettera autografata da Abraham Lincoln, e Chris Mannix (Walton Goggins), il nuovo «sceriffo», figlio di un rinnegato sudista della Carolina.
La tempesta di neve incalza e i quattro sono costretti a cercare riparo, a metà tragitto, nell’emporio di Minnie, dove incontrano «il piccoletto inglese» (Tim Roth), «il generale» (Bruce Dern), «il messicano» (Demian Bichir) e «il cowboy» (Michel Madsen).

Mentre, fuori, la bufera impazza come un mostro urlante, i personaggi – costruiti in vertiginoso equilibrio tra «segno» e idiosincrasia individuale – vengono risucchiati da un rimpiattino mortale, che si gioca per buona parte del film tra la pareti di legno del trading post (alle scenografie è il grande Jack Fisk, all’opera anche in The Revenant di Inarritu). Tarantino usa le definizione altissima del 70 mm per mappare con precisione i movimenti nella stanza, in cui, e’ chiaro fin dall’inizio, nessuno può fidarsi dell’altro.

Nella Frontiera gelata di The Hateful Eight, la guerra civile –appena finita- è chiaramente una piaga non rimarginata. E, in quel senso, qui si continua la riflessione di Django Unchained. Ma, nella filmografia tarantiniana, il titolo più simile a questo è Le iene , insieme al capolavoro che lo aveva a sua volta ispirato, La cosa di John Carpenter, che qui torna anche nelle sonorità ansiose, più thriller che western, di Ennio Morricone e nella presenza di Kurt Russell. Nell’arena postmodern del burattinaio Quentin, Iena Plissken incontra Mr. Blonde.

Più 10 piccoli indiani che Corbucci o Leone, The Hateful Eight è uno dei film più cerebrali, misurati (anche quando diventa splatter) che Tarantino abbia mai fatto.
Rinchiuso quasi interamente in uno spazio, è quasi un film teatrale, da camera. Non a caso, il regista ha detto che il suo punto di partenza strutturale sono state, non gli spazi aperti di John Ford (riconoscibilissimi in Django Unchained), ma le claustrofobiche serie televisive western degli anni Sessanta, come Bonanza e The Virginians («mi piacevano gli episodi con le guest star famose, personaggi dal passato misterioso, che apparivano all’inizio della puntata e poi sparivano per sempre: cosa sarebbe successo se li avessi chiusi tutti in una stanza?»).

E, ogni tanto, il peso di quella scommessa con se stesso si sente: è quasi un respiro di sollievo (nostro ma anche suo), infatti, quando il film si libera all’esterno, nell’ultima parte, in un’architettura magnifica di suspense e flash back. Come lo era stato Grindhouse, The Hateful Eight è anche il rilancio di un preciso rituale cinematografico estinto. Uscirà infatti, nelle sale che possono proiettare il 70mm, in una versione roadshow, di tre ore e mezza, dotata di un’overture e di un intervallo. Una versione di sette minuti più breve è prevista per le uscite nei multiplex.