Antonio Neiwiller moriva a Roma il 9 novembre di vent’anni fa, a soli quarantacinque anni. E può sembrare strano, a chi l’ha conosciuto, che sia già trascorso un tempo così lungo, tanto è forte ancora la memoria della sua voce. Ma una generazione ormai ne ignorerebbe il nome, se non fosse per le rare e forse anche per ciò non dimenticabili interpretazioni cinematografiche.

Il sacerdote amico del «matematico napoletano» Caccioppoli nel film di Mario Martone; il fantasioso sindaco di Stromboli in Caro diario di Nanni Moretti. Rara e poetica testimonianza della sua arte è anche il monologo che Rossella Ragazzi aveva ripreso con una telecamera VHS dal suo ultimo spettacolo, L’altro sguardo, realizzato nell’estate del 1993, quando sembrava uscito dalla malattia che ci aveva tenuto col fiato sospeso. Lo rivedremo fra altre cose nel corso dell’omaggio che Le vie dei festival dedicano all’attore questa sera al Teatro Vascello, a partire dalle ore 18.30.

«Se a qualcuno verrà in mente, un giorno, di fare la mappa di questo itinerario; di ripercorrere i luoghi, di esaminare le tracce, mi auguro che sarà solo per trovare un nuovo inizio», scriveva Neiwiller. E più che il presagio di un «dopo» si legge in queste parole il pensiero di un mondo possibile, la forza inesauribile dell’utopia posta al centro di una «trilogia della vita inquieta» che l’artista voleva dedicata a Pasolini, Tarkovskij e Majakovskij, rimasta invece ferma alla prima parte, Dritto all’inferno.

Non è l’unico dei progetti che la morte di Neiwiller ha lasciato incompiuto. E forse non l’avrebbe portato a termine comunque: l’incompiutezza era inscritta nel suo modo di lavorare fatto di percorsi pluriennali che attraversavano diverse tappe e con rare uscite pubbliche, perché il senso del teatro sta nel suo farsi.
[do action=”citazione”]Per tutta la vita Neiwiller è rimasto testardamente fedele a una sua idea di laboratorio. Nulla del resto gli era più estraneo del volteggiare superficiale delle mode artistiche. Il suo era piuttosto un lavoro di scavo dentro un universo poetico ai confini del teatro, dentro la pittura e vicino alla musica.[/do]

E la riflessione sul «fare artistico» si chiariva esemplarmente nel prologo della Natura non indifferente, là dove si alzava la voce dell’attore per dire l’impossibilità di trasformare il mondo, la volontà e perfino la necessità di farne arte ma anche la convinzione che non «c’è più niente da recitare». Paradossalmente il laboratorio sembrava allora sfociare in una dichiarazione di sfiducia nella possibilità della comunicazione artistica se non come inesausto lasciare le tracce di un passaggio. Ed era invece l’unica manifestazione possibile di un teatro «clandestino» che si rifaceva idealmente a un altro maestro anomalo e scontroso, Tadeusz Kantor.

Attore lo era per quella sua istintiva capacità di stare sulla scena. Ma lo era anche diventato con il rigore di un lungo tirocinio, alimentato dalla tradizione napoletana, cui aveva opposto, per non esserne travolto, le ragioni delle avanguardie; alternando con i compagni di allora Viviani e Petito, le rivisitazioni cineteatrali di dadaismo e surrealismo. E se ne era reso conto immediatamente anche chi, lontano da Napoli, l’aveva conosciuto in ritardo, protagonista di un paio di spettacoli del Falso Movimento di Martone, insieme al quale e a Toni Servillo avrebbe poi formato i Teatri Uniti. Ogni sua interpretazione diventava così una creazione, anche quando accettava di mettersi alla prova fuori dal suo gruppo, come nell’incontro folgorante con Leo de Berardinis.

Ecco allora la napoletanità ritrovata attraverso l’Eduardo di Ha da passà ’a nuttata, anche in femminili vesti materne; o il travolgente mariuolo di Totò Principe di Danimarca, pronto a trasformarsi in una copia proletaria e inoffensiva del re usurpatore dell’Amleto shakespeariano; o da ultimo lo straordinario mago Cotrone nei Giganti della montagna pirandelliani.

Ma poi l’attore tornava ogni volta alla trama più segreta del suo lavoro, com’era stato anche con L’altro sguardo, ancora il sogno di un viaggiatore inquieto che forse non si era mai allontanato dalla sua stanza. E che emozione rivederlo ora immerso nell’oscurità rotta soltanto dalla luce con cui l’attore si illuminava il viso, mentre su un muro si proiettava la sua ombra; e intanto diceva di un disadattamento, di una malattia del vivere del nostro tempo, ma anche del bisogno di inventare nuove forme per comunicare.