Dopo aver visto dalla finestra il suo amico Ranieri e la desiderata Fanny Targioni Tozzetti abbracciati, Leopardi scosso si allontana, sta per finire sotto una carrozza prima di giungere sulle rive dell’Arno. Lì si accovaccia, si stende a terra, allontana bastone e cappello dopo aver lasciato cadere la borsa (segni di status sociale e fisico), e, inquadrato dall’alto, è lasciato lì sul limine fra terra e acqua, il corpo segnato da leggeri sussulti e la musica ad accompagnare quella che è una sequenza centrale del film, che ci dice ciò che è in primo luogo in gioco, nel Leopardi di Mario Martone e nella interpretazione che ne dà Elio Germano, l’intensità della vita, il trasmettersi di una energia che parte da uno sguardo doloroso, quello che Leopardi dà ai due amanti, e finisce con uno sguardo “contemplativo”, quello del regista, che incornicia sulla sinistra lo specchio d’acqua dove si riflettono le nuvole e a destra la riva limacciosa del fiume dove riverso c’è il giovane poeta.

Ma che fa a terra Leopardi? Prende forza? O lascia transitare il suo dolore? Entrambe le cose. Se il corpo, i sentimenti, le azioni, non danno vita a forme compiute (perquesto c’è semmai l’arte), ma al passaggio di forze ed intensità, allora quel contatto con la terra indicherà il senso di un doppio movimento dall’uomo alla natura e viceversa. Quella Natura che emergerà subito dopo nell’immagine simbolica di una statua di sabbia che si sgretola, mentre Leopardi le inveisce contro, avendo come risposta la ribadita indifferenza di questa ai destini dell’umanità.

Ma se l’incontro con la natura inizia ad emergere nel secondo movimento del film, quello fiorentino, nel primo movimento, quello ambientato nel borgo natio di Recanati, l’intensità della vita è la forza che spinge Leopardi ad andar fuori dal suo paese amato/odiato.

La geometria controllata degli spazi (finestre, porte, vicoli e piazze), la razionalità della biblioteca, la disciplina e la regola a cui deve corrispondere (seguendo padre e tutore), non riescono a controllare una spinta inesorabile ad uscire, a cercare il mondo.

Qui la forza della vita passa per la malattia, che non è impedimento, blocco, esattamente l’opposto: è traccia di una spinta intensa che disarticola il corpo anche nelle sue funzioni fisiologiche elementari (come la minzione), perché ne orienta l’eccezionalità del sentire. La salute fragile è segno di una intensità di vita che attraversa l’organismo e gli impedisce di svolgere le sue funzioni ordinarie, anche quelle di supporto al ruolo sociale. Il corpo malato è un corpo segnato dalla vita, anche nelle sue componenti distruttive.

Un corpo abitato da una esteriorità intima, lontano dall’idea della salute come “silenzio degli organi” (Leriche) che permetterebbe agli uomini di “dimenticarsi” della loro condizione finita, limitata, mortale.

Ma in Leopardi, e questo nel film emerge con grande forza, il limite della malattia, la debolezza del corpo sono anche condizioni della forza che ne emerge. Il corpo è debole per le intensità che lo attraversano e lo sottopongono a duri sforzi, ad anni di “studio duro e disperatissimo”, a illusioni dominanti a desideri trascinanti, che provocano precipitazioni, contorcimenti. E allora si determina un conflitto perenne, vitale e cruento allo stesso tempo: l’intensa e crudele forza della vita porta da un lato alla necessità di “immunizzazione”, e a questo servono i valori e le illusioni della vita sociale (“Farò mai qualcosa di grande?”), dall’altro questi ultimi vengono rigettati in nome di sentimenti più profondi come l’amore (“Non ho bisogno di gloria, di fama. Ho bisogno di amore, di entusiasmo, di fuoco, di vita”); La vita e la sua forza sottraggono le illusioni al loro carattere accecante ed elusivo, ma queste ultime (fama, gloria, onore) proteggono dal carattere crudo della vita, che non può che condurre ad uno “scetticismo ragionato”, ma dove “La ragione umana non potrà mai liberarsi da questo scetticismo”.

Allora, l’intensità della vita sembra essere il punto di conversione di una dialettica inesauribile tra illusioni e scetticismo, tra il carattere rassicurante ma accecante delle prime e il tratto cruento ma vero del secondo. E l’arte, la poesia, è il momento in cui questa dialettica caotica dell’esistenza prende forma e si compone. L’arte è la traccia di iscrizione del caos nell’armonia, delle forze nelle forme, del disordine nella composizione. Ma questa iscrizione non è una forma di controllo, tutt’altro, è il modo in cui il caos, l’inalienabile incompiutezza, l’irresolubile ambivalenza della vita, prende espressione e dunque esiste.

L’ultimo potente movimento del film, quello napoletano, manifesta tutto questo.

Dopo il perimetro circoscritto di Recanati (la biblioteca, i fratelli, il padre), in cui la vita segna il corpo e il desiderio di evadere, e il momento fiorentino in cui l’orizzonte si apre, anche qui dolorosamente, ad una vita di relazione (teatro, salotti, accademie letterarie, delusioni per riconoscimenti mancati e per amori non corrisposti) che definisce propriamente la “stretta società” (di cui Leopardi parla nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani), l’arrivo a Napoli determina l’ultimo passaggio, quello definitivo e radicale.

La natura non è più idilliaca, non è l'”ermo colle” dove la “piccola scena” (che emerge nella “recita” che fa Germano dell’Infinito) è legata agli affetti, anche contrastanti, ma non è neanche la natura simbolica della statua che si sgretola, nel passaggio fiorentino.

La natura assurge ora al sublime, lascia l’uomo nella sua piccolezza e inermità, rispetto alla sua potenza (il vulcano) e alla sua enormità (la volta del cielo stellato). Sono le due figure che segnano il sublime kantiano, l’immensamente potente (eruzione vulcanica) e l’immensamente grande (volta celeste). E la straordinaria intensa lettura di alcuni passi de La ginestra che chiude il film accompagna entrambe queste immagini del sublime della natura. Qualcosa a cui la nostra immaginazione non può corrispondere, ma il nostro sentimento e il nostro pensiero si sentono superiori, tant’è che si possono comporre versi memorabili a partire da questo scacco.

Ma non basta, c’è un passaggio ulteriore: se la natura sublime toglie ogni illusione agli uomini, se svela il posticcio della patina illusoria delle “magnifiche sorti e progressive”, se tutto questo è vero, non significa che gli effetti condurranno necessariamente allo scetticismo.

La disillusione può farci accedere alla verità, constatando che il “male che ci fu dato in sorte” è comune, riguarda tutti gli uomini, i quali “tutti fra se confederati” condividono la stessa condizione e combattono una “guerra comune”.

Ecco, allora, che dal viale del parco (immagine del tempo, delle illusioni, dei vincoli sentiti ma rigettati), che apre il film, dove, ragazzi, vediamo correre e giocare i tre fratelli Leopardi, ci troviamo, passando per l'”asprezza” del gioco sociale fiorentino (gioco infranto di gloria e d’amore) e la caoticità vitale del popolo napoletano (dialetto, bassi, prostitute, perfino il colera), a Torre del Greco, sotto il vulcano, spersi in una natura che non ha più vincoli e perimetri umani.

E lì, dissolta ogni illusione ma anche ogni scetticismo, emerge l’umanità dell’uomo, e cioè la condivisione di un destino: affermazione ulteriore, la più potente, della vita, della sua forza, di una comunità che si sente unita nella sua distinzione.

Illusione, scetticismo, amore, malattia, fuga, malinconia, rivolta, verità dell’uomo, sono le diverse forme che assume di volta la forza della vita che attraversa tutto Il giovane favoloso e che trova nel rapporto tra la Poesia e la Natura (due grandi categorie del pensiero romantico) il suo momento più intenso.

La prima rappresenta la vita nella sua forma più creativa (e dunque ispirata), la seconda nel suo aspetto più sovrastante, al di fuori di ogni controllo. Solo riconoscendo questa radicale esposizione dell’uomo al “fuori”, che è possibile riscoprirne la sua umanità e dire sì ad un destino in quanto condiviso.

L’ethos dello sguardo di Martone è capace di guidarci, senza alcun tipo di compiacimento, e in un percorso molto rischioso, attraverso tutto questo e dove Giacomo Leopardi diventa il nome proprio di una idea di vita come corrispondenza alla forza di qualcosa che ci attraversa e ci sovrasta, ad un desiderio che necessita di coraggio per poter essere preservato e alimentato.

Se Noi credevamo è stato anche il racconto dello scacco della Storia, dell’epopea mancata (e fattasi tragedia) del nostro Risorgimento, Il giovane favoloso compie un passaggio ancor più radicale, quello che ci racconta la potenza della vita nel modo in cui si è incarnata in una eccezionalità di destino, nella figura che con più forza ha saputo esprimere, rifrangendo tutte le contraddizioni individuali e sociali dell’epoca, la fragilità e la grandezza, la malinconia e la gioia, la limitatezza e l’infinità, della condizione umana.