L’uomo che il 21 settembre del 1972 nel suo gelido appartamento del Quai Voltaire si tira una revolverata dopo avere ingerito una pastiglia di cianuro ha settantasette anni ed è ritenuto il più aristocratico fra gli scrittori francesi: in effetti il fondale domestico, una spoglia galleria di busti e calchi dell’epoca romana, rispecchia il carattere sdegnoso di Henry de Montherlant la cui prosa marmorea con ampie venature di fiamma mantiene il volto stesso del contegno e di un’algida eleganza. Montherlant non solo ama autoritrarsi nei paramenti di un pagano redivivo, legato a una divisa di stoicismo e al culto sprezzante della virtus, ma vive nel rimpianto di alcune Eterìe che, fra l’età del collegio e la partecipazione alla Grande Guerra, lo legarono a diversi adolescenti stretti intorno a un patto giurato: perciò il senso dell’onore virile e bellicoso, una profonda misoginia e una dichiarata pederastia ancora si intrecciano in quello che forse è il libro più suo, l’inedito memoir abbandonato sul tavolo di suicida (e mai tradotto in italiano) che si intitola Mais aimons-nous ceux que nous aimons?

L’origine e l’educazione aristocratica, la Croce di ferro guadagnata al fronte, la passione per una pratica estrema come la corrida, nonostante il sospetto per le avventure coloniali (e pur di non sembrare un sovversivo tenne decenni nel cassetto il romanzo La rose de sable), tutto lo orientava a diventare un uomo d’ordine e, dopo la Disfatta del maggio ’40, a benedire Pétain come il redentore della Francia. Dunque fra il ’41 e il ’44, senza allinearsi da militante alla maniera di Robert Brasillach o di Lucien Rebatet (né sfogarsi con la stessa bile di un Céline, suo antipode caratteriale), Montherlant plaude all’Occupazione in una serie di conferenze e articoli (specie per «La Gerbe», foglio fascistissimo) che nel ’41 riunisce ne Il solstizio di giugno (a cura di Claudio Vinti, Passaggio al Bosco, pp. 174, € 16.00), ora ripreso in italiano dall’edizione Akropolis del 1983 senza purtroppo aggiornarne gli apparati e la bibliografia. Montherlant legge nella Disfatta il necessario esito del Fronte Popolare e, nel lungo periodo, il frutto della critica sferrata dai Lumi al tradizionalismo e ai suoi istituti secolari. Perciò accredita nel nazismo, da lui apertamente ammirato, la palingenesi dei francesi nel momento in cui vede soccombere la viltà indolente dell’esercito cristiano e viceversa trionfare le croci uncinate di una gioventù belluina e finalmente pagana.

Quelle che chiudono Il solstizio di giugno sono infatti pagine di sensuale estetismo: «Conquistavano le città con dieci biciclette, dieci ragazzi sbracati e grondanti di sudore, con le armi a tracolla, e si divertivano pazzamente. E pensavo che la terra che ora essa conquistava le era dovuta, che i campanili abbattuti dai suoi cannoni non sarebbero stati ricostruiti, che sarebbe venuto il giorno in cui avrei visto sventolare il vessillo della Ruota Solare sulle torri di Notre-Dame di Parigi. La città non era più di Ginevra ma di Giuliano». Il giovane che era stato un precoce lettore di Nietzsche e un corrispondente addirittura di d’Annunzio, colui che al presente si dice ammiratore di Giuliano l’Apostata, torna a opporre frontalmente paganesimo e cristianesimo per cui, sia detto proprio in termini di bigiotteria, il paganesimo sarebbe sinonimo di valore psicofisico mentre il cristianesimo di svirilizzazione e decadenza dei costumi.

È questa la ferita che attraversa le coeve e oggi così poco frequentate partiture teatrali di Montherlant di cui sopravvivono fra le altre in italiano la stupenda monodìa di Pasiphae (traduzione di Luca Coppola, Novecento 1990), urlante conflitto di apollineo e dionisiaco, e Port-Royal (’54, ora da Aragno) che ebbe la versione di Camillo Sbarbaro, dramma di quel giansenismo che fu l’unico cristianesimo mai concepibile per lo scrittore francese.

A parte sta la pièce di omaggio al Rinascimento italiano, Malatesta, ancora voltata da Sbarbaro (Raffaelli 1995) ma riproposta nel 2020 dal Teatro Galli di Rimini nella limpida versione di Davide Brullo, il poeta che nel blog di «Pangea» torna a cadenza sull’opera di Montherlant. Costui sembrerebbe oramai confinato tra quelli che si dicono scrittori di culto, cibo per una élite di intenditori, e tuttavia nel suo lascito così datato rimane una zona che sfida apertamente il luogo comune dell’autore classicista o, anzi, tradizionalista e nostalgico. Perché Henry de Montherlant ha frequentato il genere moderno per definizione, il romanzo, alla cui architettura presiede sempre l’ironia, attitudine del tutto anticlassica. Ne scrisse una dozzina negli anni della prima maturità, e fra questi due capolavori che l’editoria italiana ha di fatto rimosso. Innanzitutto Gli scapoli (in italiano nel 1953, ancora disponibile negli Oscar pochi anni fa, a cura di Luciano De Maria), un sordido interno borghese dove due vecchi fratelli sono lasciati soli da un mondo totalmente industrializzato e mercificato che nemmeno più prevede una simile epica della misantropia, dove lo stile vibra tra mimetismo ed espressionismo mostrando una felice manipolazione dei tradizionali modelli ottocenteschi; l’altro capolavoro, sul serio strepitoso per ritmo e virtuosismo polifonico, è invece un romanzo epistolare ed è insieme il romanzo di formazione di uno scrittore sul modello delle Liaisons dangereuses: in italiano si intitola Le ragazze da marito (ottima la traduzione di Cesare Colletta, Adelphi 2000) e fa parte di una tetralogia, Le jeunes filles (1936-‘39) che purtroppo Adelphi ha lasciato cadere nonostante colui che è lo scrittore misogino per definizione vi riveli una sensibilità al femminile molto rara fra i coetanei, una attitudine dai toni ironicamente sapienziali, come si legge ad apertura di pagina: «Il terribile è che la donna sognerebbe – ingenua e impotente com’è – di esercitare sull’uomo lo stesso potere che l’uomo esercita su di lei. Una donna felice e amata (e che ama) non chiede niente di più. Un uomo che ama e che è amato ha invece bisogno d’altro».

Che la forma-romanzo in realtà sia centrale nell’immaginario di Montherlant lo conferma l’elegante plaquette intitolata Contro Don Chisciotte (traduzione di Ulisse Jacomuzzi, De Piante Editore, pp. 33, € 20,00) e introdotta da una nota di Stenio Solinas che rinvia opportunamente alle passioni iberiche dello scrittore, inclusa la corrida e la materia prima di non poche partiture teatrali (Il maestro di Santiago, La Regina morta, Il Cardinale di Spagna) nonché del romanzo terminale in cui dissimula la zona atrofica dell’autobiografia, Il caos e la notte (traduzione di Giuseppe Mormino, Bompiani 1965). Qui si tratta del recupero della prefazione 1962 a un tascabile di Cervantes ma l’oggetto del discorso non è tanto il Don Chisciotte, peraltro amatissimo, quanto l’uso corretto dei classici che andrebbero sottratti, a parer suo, sia al feticismo necrofilo degli accademici sia alla nonchalance liquidatoria di certi modernisti. Afferma di amare l’Hidalgo e il suo fido scudiero ma ammette di non sopportare l’abbondanza del romanzo e logorrea che talora ne intacca gli equilibri. È questo un esplicito invito alla cernita, vale a dire per etimologia alla critica, pure se non ce lo aspetteremmo da Henry de Montherlant che, vuole il suo stereotipo, fu il più solenne e fieramente anacronistico degli scrittori secolari.