E’ «serbevole» il prodotto agricolo che si conserva facilmente, senza deteriorarsi. Una dote quasi magica, perché se è già arduo, in molti contesti, affrontare alee climatiche, malattie e parassiti per arrivare al raccolto, la fase successiva spesso si rivela altrettanto ardua: basta un nonnulla perché tanta fatica si perda.
Ed è il cibo che non riesce ad arrivare alle bocche umane l’argomento principale del denso rapporto Stato dell’agricoltura e dell’alimentazione 2019, compilato dalla Fao, agenzia specializzata dell’Onu. Intanto le definizioni, non così scontate.

LA PERDITA DI CIBO «FOOD LOSS» AVVIENE nella parte della catena di approvvigionamento che partendo dal raccolto (o pesca o macellazione) attraversa lo stoccaggio, il trasporto e la trasformazione. Invece, lo «spreco alimentare» (food waste), si verifica a livello di distribuzione e vendita nonché consumo pubblico e privato. La combinazione dei due danni, che tiene conto di tutta la catena di approvvigionamento, è anche definita «sperpero». Davanti all’invio in discarica o all’incenerimento del cibo, tutti sembrano ormai inorridire. Ma per intervenire efficacemente in questo fenomeno complesso è necessario coglierne appieno cause, concatenazioni e punti chiave.

I dati sono ancora approssimativi. Il rapporto Global food losses and food waste, redatto nel 2011 per la Fao dall’Istituto svedese per il cibo e la biotecnologia, stimava che un terzo degli alimenti prodotti nel mondo (1,3 miliardi di tonnellate) non arrivasse agli stomaci umani. Questa stima, l’unica esistente che riguardi l’intera catena di approvvigionamento per tutti i prodotti agricoli, è riuscita ad attirare l’attenzione sulle dimensioni del problema ed è ampiamente citata negli anni, ma è considerata approssimativa dalla stessa agenzia Onu. Inoltre considera come perdita o spreco tutti gli usi non umani (gli scarti utilizzati come cibo animale o dall’industria, i semi etc.).

LA FAO NEL FRATTEMPO HA DELIBERATO il Food Loss Index (Fli, Indice della perdita di alimenti) sulla base del quale il 13,8% del cibo prodotto a livello globale si perde dal raccolto in poi, esclusi la vendita e il consumo finali. Intanto, il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente sta mettendo a punto il Food Waste Index (Fwi, Indice dello spreco di cibo) per calcolare lo spreco nella fase finale della vendita e del consumo.

In ogni caso, considerando tutta la catena di approvvigionamento, il Fli stima, per la fase successiva al raccolto fino alla distribuzione (esclusa) queste percentuali di perdita: 20-21% nell’Asia centrale e del Sud, 16% in Europa e America del Nord, 14% in Africa, 12-13% in America latina, 5-6% in Australia e Oceania. L’ortofrutta registra ovviamente perdite importanti, del 21-22% a livello mondiale, mentre carne e pesce sono intorno al 12-13%. Tuberi e oleaginose arrivano al 25% perché abbondano i dati su prodotti altamente deperibili, come la cassava. Presto il Fwi riporterà i dati disaggregati riguardanti lo spreco nella fase finale.

Le cause? L’Ifpri (International Food Policy Research Institute) ha esaminato con gli agricoltori di sei paesi (Cina, Ecuador, Etiopia, Guatemala, Hunduras, Perú) la natura e i fattori diretti o indiretti (sistemici) delle perdite di derrate pre-raccolto e post-raccolto per 5 alimenti di base (frumento, teff etiopico, fagioli, patate e mais). Alle alee nei campi (infestazioni, malattie, siccità) si sommano non di rado le inefficienze nel raccolto, magari anticipato dai contadini poveri per pressanti ragioni alimentari, economiche o di sicurezza, ma con perdite anche del valore nutritivo.

NEI PAESI DEL SUD COME IN QUELLI DEL NORD, non di rado si lascia nel campo parte della produzione perché i compratori impongono prezzi risibili. Nella fase post-raccolto, le derrate si deteriorano per lo stoccaggio in condizioni di temperatura e umidità non adeguate e per l’azione di parassiti. Le grandi difficoltà post-raccolto a livello di piccole unità produttive nei paesi impoveriti indussero trent’anni fa l’Unifem (Fondo delle Nazioni unite per la donna) a realizzare una serie di libretti che illustravano tecnologie semplici per trasformare (e mettere in salvo o vendere) cereali, semi oleosi, tuberi, prodotti caseari, per imballarli e trasportarli.
Un fenomeno specifico riguarda la pesca; non solo il pesce – come del resto la carne – è altamente deperibile, ma la cattura accidentale di milioni di tonnellate (l’8% del totale pescato) di pesci indesiderati sacrifica animali rigettati in acqua morti, agonizzanti o gravemente feriti.

Le derrate si perdono anche per effetto di tossine, acqua contaminata, ricorso a pesticidi dannosi (anche nella fase dello stoccaggio) o abuso di farmaci veterinari. La difficoltà di raggiungere i mercati è un altro fattore centrale. Non è difficile immaginare che il trasporto del latte in risciò per lunghe distanze in taniche metalliche sia poco compatibile con la conservazione, tanto più in un clima caldo umido. E l’immondizia che in un mercato povero si mescola all’ortofrutta pone non solo problemi sanitari ma anche di deperimento accelerato.

NEI PAESI SVILUPPATI, PIU’ CHE LA MANCANZA di infrastrutture per la conservazione e i trasporti, sono gli standard di qualità a far danni: tanti prodotti sono rigettati per la taglia o l’aspetto, tanto che ampie percentuali nemmeno escono dall’azienda agricola.

Se nei paesi impoveriti il fenomeno dello spreco alimentare è minimo (lo si considera inaccettabile e inoltre gli acquisti alimentari avvengono volta per volta, in piccole quantità), l’abbondanza e il consumismo rendono invece gigantesco lo spreco nei paesi del Nord. L’estrema varietà della gamma offerta in vendita fa sì che sia difficile poter vendere tutto, e i consumatori tendono a evitare i prodotti vicini alla scadenza o alla data di consumo preferibile. Così occorre un rinnovo continuo degli stock. Il resto lo fanno gli sconti. Nei servizi di ristorazione, i buffet a prezzo fisso sono un incentivo allo spreco. A domicilio, conta il fatto di potersi permettere di gettare nella spazzatura il cibo.

Quando non è il cibo stesso a essere già spazzatura.

Bando allo spreco: se perfino diversi scarti tipo bucce, foglie e torsoli si possono cucinare con successo e guadagnando in nutrimento, purché siano biologici (i libri non mancano), figurarsi se possiamo permetterci di gettare all’«ultimo miglio» il resto: cibo acquistato e/o cucinato.

PER FORTUNA, IL PROGETTO REDUCE (Ministero ambiente e Università di Bologna) ha verificato fra il 2014 e il 2018 un quasi azzeramento (dal 50% all’1%) della percentuale di cittadini che confessano uno spreco di cibo quasi quotidiano. Ciò non toglie che tuttora in Italia la perdita di cibo pro capite settimanale sia pari a 700 grammi, e il gettato a livello domestico è pari ai quattro quinti del totale di filiera (produzione-distribuzione-consumo). Anche la grande distribuzione ha tuttora buchi neri, con 200.000 tonnellate (dato Reduce 2018) gettate ogni anno malgrado le pratiche virtuose e di donazione dell’invenduto. Nelle scuole, ogni pasto spreca 90 grammi a studente. La sensibilizzazione dei ragazzi è fondamentale.

E non dimentichiamo la gerarchia del recupero di cibo: la piramide rovesciata vede in cima la prevenzione a tutti i livelli della catena di approvvigionamento, poi la redistribuzione del cibo in eccesso e dell’invenduto, in seguito l’uso per gli animali o industriale e, last but not least anzi indispensabile, il compostaggio di quanto non è diversamente utilizzabile. Magari a livello domestico se le amministrazioni pubbliche fanno cilecca. Non vorremo mica che, oltretutto, il cibo sprecato viaggi con la spazzatura per centinaia di chilometri (a combustibili fossili) alla ricerca di un (inquinante) inceneritore?