«Fotografare è collezionare il mondo», asserisce il portoghese Edgar Martins. Ma se si osservano i suoi scatti – notti urbane, luoghi industriali disabitati, algoritmi misteriosi, silhouettes oscure che si stagliano sfidando il buio – quel mondo/soggetto di un possibile mosaico finisce per essere una enorme incubatrice della solitudine, lo spazio immaginario dell’isolamento presente e futuro.
Così, anche quando il volume Civilization cerca di interpretare questa parola di difficile collocazione concettuale (in quanto per sua costituzione centrifuga e insieme centripeta, calamitando a sé molteplici significati) nella sezione «Controllo» (autorità, restrizioni, governo, militarizzazione) le fotografie in realtà rimandano a una landa desolata, un pianeta attraversato da vuoti umani, architetture disciplinate che producono una deprivazione sensoriale.

È questa forse la parte più inquietante del libro, che ben riconsegna ai lettori il continuo paradosso in cui viviamo: quello di essere costruttori della propria cella, che sia tecnologica o semplicemente aziendale. E quando gli individui appaiono, a interrompere l’astratta geometria dei luoghi restituiti dalle fotografie, sono soldati, lavoratori, prigionieri, una moltitudine dall’identità svaporata, annientata da funzioni repressive prima ancora che possa «nascere» come soggettività.

Il percorso di orientamento tra le numerose pagine e immagini di Civilization può iniziare da una «inquadratura», apparentemente innocua, di Thomas Struth. Mostra la quotidianità degli «animali urbani», così come viene vissuta dai visitatori della sala con l’Altare di Pergamo, nel museo di Berlino. Non un’attenzione verso la Storia, ma un bisogno assoluto di incontrarsi in una agorà occasionale (nello specifico, lo spiazzo della sala stessa). Le traiettorie degli sguardi non si posano sull’opera che accende il ricongiungimento tra passato e presente, ma indugiano in una rete di rimandi, al cui centro c’è sempre l’altro, il visitatore casuale, corpo fenomenico del «qui e ora». Una sola persona (forse due) si avventura in una meditazione di fronte alla magnificenza delle vestigia antiche, procedendo a ritroso nel tempo. Esce, quindi, da sé. Una prospettiva poco accattivante per una comprensione dell’«estraneo». Se lo sconfinamento verso mondi dell’altrove, invece, diventa possibile con le nuove tecnologie, la direzione è naturalmente quella dell’intelligenza artificiale, che sempre di più si sta sganciando e rendendosi autonoma rispetto all’umano (ex) suo «programmatore».

Indagare dunque una cartografia variegata della «civiltà» è impresa ardua, che rischia di fallire il suo obiettivo, almeno dal punto di vista concettuale. Diversa però l’attitudine se ci si sofferma sulla carrellata fotografica. Come fosse un album-atlante, è quella che offre – molto più dei saggi – alcuni punti fermi da cui ripartire per un discorso complesso. Se il primo è quello di un eterno presente (estratto da Struth), l’altro lo potremmo chiamare lo specchio cancellato, una «non restituzione» esistenziale. Paragmatica è l’immagine (sezione «Alveare») dello svizzero Cyril Porchet (dalla serie Crowd, 2014). Convinto che «nella forma ci sia una qualche verità», magnetizzato dai raduni popolari , ha affermato che questi ultimi «emanano una forza particolare in un’epoca in cui tutto sembra andare verso la globalizzazione».

Alla fine, quel flusso indistinto di colori, la massa in movimento che si fa quadro informale «spezza» l’idea di comunità e nega ogni riconoscimento. È l’inconsapevole ritagliarsi di un’altra prigione, a propria misura. Infine, la natura e il suo riversarsi nell’artificiale, trasformandosi in serraglio. Abitata da un brulicare di individui, ridotta a spazio disegnato e addomesticato secondo le necessità della famosa Civilization. Quindi, accarezzata come oasi di libertà, dimensione della fuga, la natura si fa cornice di un formicaio omogeneo che riesce pure a impossessarsi del mare (Coastline n.15 di Zhang Xiao), delle spiagge (Massimo Vitali in Dune du Pyla). L’umano, insomma, non è altro che una frattura, una interferenza moltiplicata della geografia.