‎«Non bastano le dimissioni di Hani Mulqi, ci vuole un cambio di ‎rotta vero e la certezza le misure annunciate verranno abrogate». ‎Così Masoud Dabbagh, un militante del Partito comunista giordano, ‎dopo il passo indietro fatto dal primo ministro, spiegava ieri al ‎manifesto la posizione unitaria delle tante sigle politiche, sindacali e ‎sociali che dal 30 maggio guidano ad Amman e in altre città le ‎proteste popolari contro la riforma fiscale e le misure di austerità ‎varate su pressione del Fondo monetario internazionale. ‎«Le classi ‎più povere – ha aggiunto Dabbagh – devono fare i conti con continui ‎rincari dei servizi pubblici, la benzina è aumentata cinque volte ‎dall’inizio dell’anno, il costo dell’elettricità è cresciuto del 55% ‎». ‎L’uscita di scena di Mulqi non è sufficiente. Ci vuole una nuova ‎politica economica. Ed è arduo immaginare che possa svilupparla ‎Omar al Razzaz, ministro dell’istruzione ed ex economista della ‎Banca Mondiale con studi ad Harvard, al quale re Abdallah ieri ha ‎affidato l’incarico di formare il nuovo governo. Il timore, espresso da ‎uno dei leader della protesta, Ali Abous, alla testa di un blocco di 15 ‎sigle sindacali e organizzazioni sociali rappresentative di mezzo ‎milione di giordani, è che al Razzaz conosciuto come un riformista, ‎si dimostri incapace di annullare le misure annunciate da Mulqi se ‎non addirittura l’esecutore di gran parte di esse. ‎

La Giordania è schiacciata da un debito pubblico giunto al 94% del ‎Prodotto interno lordo. Un dato che è frutto di incapacità, sprechi e ‎corruzione ma anche dell’arrivo nel Paese di almeno 700mila ‎profughi siriani. I precedenti governi giordani, con scarsissimo ‎entusiasmo, hanno dovuto partecipare all’assistenza di una tale massa ‎di persone prive di tutto che scappavano dal conflitto in Siria, certi di ‎ricevere generosi aiuti internazionali a beneficio anche dell’economia ‎nazionale. Questo tema non a caso era stato al centro della campagna ‎elettorale di due anni. Invece questi aiuti sono stati insufficienti ‎mentre il debito pubblico passava dal 57% del Pil nel 2010 al dato ‎attuale. I tagli ai sussidi statali fatti in questi anni per contenere il ‎debito si sono rivelati devastanti per i più poveri, che formano una ‎buona porzione degli otto milioni di giordani, e per la classe media. ‎Fino al pugno di ferro del Fondo monetario internazionale, noto ‎affamatore di popoli di Paesi poveri, che in cambio del prestito ‎triennale da oltre 700 milioni di dollari ha chiesto alla Giordania ‎provvedimenti immediati per il taglio della spesa pubblica e una ‎severa riforma fiscale. Un pugno allo stomaco di un Paese che non ha ‎risorse naturali, che vive degli aiuti delle ricche petromonarchie del ‎Golfo, in cui il 18,5% della popolazione è senza lavoro (tra gli ‎uomini la disoccupazione è al 16%, tra le donne al 27,8%, tra i ‎laureati al 24%, tra i giovani al 40%) e il 20% vive sotto la soglia di ‎povertà e che ha un Pil annuale di appena 39 miliardi di dollari.

‎«Ora ‎ci sono 80mila persone in più che hanno bisogno di assistenza ‎urgente, le condizioni di vita si sono deteriorate da quando il governo ‎ha iniziato ad attuare le riforme del Fondo monetario ‎internazionale‎», afferma Ahmad Awad, direttore del Centro per gli ‎studi economici e informatici di Amman. Negli ultimi anni inoltre la ‎Giordania è stata colpita dall’esodo degli investitori internazionali e ‎dalla migrazione di molte imprese verso l’Egitto e altri Paesi che ‎offrono incentivi fiscali e migliori sbocchi sui mercati.‎

‎ Il regno hashemita è una polveriera e se in questi anni ha sofferto ‎relativamente poco gli scossoni causati dalle varie crisi e guerre ‎regionali, ora rischia di esplodere a causa della crisi economica e ‎della politica dei conti in ordine e di tagli allo stato sociale imposti ‎dal Fmi. Un clima che re Abdallah ha sicuramente colto. La sua ‎decisione di rimuovere subito Mulqi è volta a placare una protesta ‎popolare contro misure economiche guidata oggi da forze di sinistra ‎e laiche ma di cui potrebbero prendere presto il controllo i Fratelli ‎musulmani e i salafiti in costante crescita forti in alcune delle città, ‎come Maan, nel sud del Paese, dove più accese sono state le ‎manifestazioni in questi giorni contro il governo. ‎