Finalmente il populismo esce dalla genericità: un termine «pigliatutto», sotto il cui ombrello stanno troppe figure. E acquista un profilo corporeo. Una propria anatomia. Una topografia. Una articolata sociologia.

L’ampio volume di Pier Giorgio Ardeni (Le radici del populismo, Laterza, pp. 248, euro 18) fa esattamente questa operazione culturale e politica: ridisegnare la struttura corporea dei nuovi protagonisti politici che hanno occupato la scena dell’ultimo periodo. Poco più di un ventennio nel corso del quale i cosiddetti «partiti populisti» sono passati da una presenza marginale (non superavano il 4% negli anni ’80, erano intorno al 7% alla fine degli anni ’90) a un ruolo centrale (nel 2018 in Europa «quella quota è aumentata fino a circa il 27% del voto totale»).

E lo fa cercando «la spiegazione mancante» tra le tante interpretazioni che pur sono state proposte, sia sul versante dell’analisi socioeconomica, con al centro l’individuazione della causa della sindrome populista nel senso di incertezza e di deprivazione prodotto tra i «perdenti» della globalizzazione, sia sul versante culturale focalizzato sulla domanda di un’identità smarrita nelle nebbie del presente. Non contrapponendosi a queste due linee di elaborazione, ma attraversandole trasversalmente, e facendole incontrare in un punto d’incrocio costituito dalla categoria della diseguaglianza.

È QUESTA LA CHIAVE di volta proposta dall’autore, sulla base di un gigantesco lavoro di ricognizione empirica, di allineamento e analisi dei dati secondo la tecnica sperimentata dall’Istituto Cattaneo: l’operatività teorica e pratica – antropologica, etica, politica prima ancora che economica – del concetto di diseguaglianza all’origine della sindrome populista. L’idea – potente – che «il sonno dell’equità genera il mostro della presunta rivalsa egualitaria in nome del popolo».

Un monstrum – nel senso dello stupore che ha prodotto nel suo materializzarsi – a più teste, soprattutto a due, quella incentrata sull’ethnos, sull’offerta identitaria a una domanda di smarrimento, radicata nell’istanza sovranista e nazionalista, e quella sul demos, sull’offerta di un metodo spiccio di bypassare la crisi di rappresentanza delle nostre democrazie mature con la retorica anti-casta e la fibrillazione partecipativa della rete. Due domande e due risposte a cui, nella radicalità di cui si fanno vettori, non bastano le spiegazioni consuete, pur vere, ma parziali di tipo politologico (la crisi dei partiti, l’impasse della governabilità). O quelle socio-esistenziali: la sindrome del forgotten man (dell’uomo dimenticato) o della forgotten class (dei gruppi sociali lasciati indietro). O economicistiche (la deprivazione di massa, l’impoverimento di nuova generazione). Tutte cose vere.

MA TROPPO «LINEARI» per dar conto della varietà e della geografia a macchia di leopardo che la mobilitazione populista ha assunto. E ancora insufficienti per spiegare la dirompente «energia politica» che il fenomeno mette in campo, capace di travolgere con la forza degli eventi geologici consolidati equilibri. E di provocare quella che Ardeni chiama «la rottura del discorso politico generale».

Quell’«energia» invece lo scandalo della diseguaglianza la possiede perché capace di lavorare su corde profonde del comportamento umano, implicate con il sistema delle relazioni, con i meccanismi del riconoscimento, con le dinamiche dello sguardo su sé e sugli altri.

È il meccanismo ben spiegato dall’«effetto tunnel» descritto da Albert Hirschmann, con il mix di reazioni e sentimenti che ci prendono quando fermi in coda in galleria vediamo la fila di macchine accanto che si muove e in un primo tempo la cosa ci rassicura perché immaginiamo che tra poco ci muoveremo anche noi, ma se il tempo passa e quelli continuano ad avanzare e noi continuiamo a star fermi allora c’incazziamo.

La rabbia populista è simile, ha a che fare con l’immobilità e il declino mentre altri avanzano, con l’invidia sociale e la frustrazione da marginalità. Si alimenta del confronto con chi ci sta accanto o davanti, chi scende e chi sale, chi prende e chi perde. Per questo richiede, per essere «spiegato», un quadro complesso, con dentro tempo, spazio, dislivelli e gradienti. Tutti aspetti che Ardeni mette in fila, in un mosaico a molte dimensioni, a sostegno dell’evidenza empirica per cui «diseguaglianza e populismo marciano insieme, mano nella mano».

PER QUANTO RIGUARDA l’Italia intanto ci offre un quadro di contesto preciso: una società ferma, in cui l’ascensore sociale si è bloccato, e ci vogliono cinque generazioni prima che il figlio di un povero possa salire a un piano superiore. Un popolo de-alfabetizzato (il 30% della popolazione è censito come «illetterato»), con il doppio di scolarità inferiore (scuola dell’obbligo) e la metà di superiore (diploma o laurea) rispetto agli altri paesi europei. Un mondo del lavoro impoverito, precarizzato e dequalificato… E una diseguaglianza cresciuta costantemente nell’ultimo trentennio, con un indice di Gini (che misura appunto la diseguaglianza tanto del reddito disponibile che della ricchezza) schizzata in alto di numerosi punti (+3 rispetto all’area Euro, che equivalgono a un abisso). Ma l’analisi non si ferma qui.

Questo quadro sistemico è incrociato con altre due dimensioni: longitudinale (l’asse spaziale che va da Nord a Sud) e territoriale (il rapporto centro-periferia, grandi e piccoli centri, aree metropolitane e aree interne). I grandi «misuratori di posizioni», che spiegano perché la diffusione populista cammini su direttrici precise: lungo l’asse Nord-Sud soprattutto quella 5Stelle; dal centro verso le semiperiferie e le periferie estreme la marcia leghista, con significative differenze tra il populismo etnocentrico salviniano (di estrema destra) e quello sociocentrico grillino.

Scopriamo allora la potenza analitica di questo tipo di sguardo: la conferma che la Lega raccoglie i maggiori consensi tra gli strati dei meno abbienti (classi di reddito basse e molto basse nelle cinture sub-urbane e nei comuni periferici) tranne nel Nord-Est dove raccoglie tra i ceti medio-alti così come nei comuni ultra-periferici dove all’appello securitario rispondono i benestanti. E che i 5Stelle sfondano nei gruppi di reddito medi e medio bassi prevalentemente urbani, in crescendo man mano che si scende a Sud, mentre il Pd tiene nei «comuni polo», dove maggiore è la ricchezza (il maggior numero di «dichiaranti ricchi») e frana man mano che ci si sposta verso le aree sociali più deboli.

C’È IN FONDO, in questa rappresentazione plastica, l’autobiografia di una sinistra che nel passaggio di secolo ha compiuto per intero la propria metamorfosi integrale, di cui il libro ci affida un epitaffio senza appello: «Dopo la ‘terza via’ blairiana, dopo il ‘progressivismo’ iper-capitalistico e liberista clintoniano, dopo essersi stretti intorno al baluardo della crescita, sperando che questa arrivasse, mal proteggendo i ceti medi e sperando che insistere sui diritti civili compensasse la perdita di rappresentanza sui temi sociali, la sinistra ha finito per lasciare il popolo… abbandonato, stremato, confuso, perso, esposto alle più concrete promesse dei ‘populisti’ che lo hanno degnato di attenzione».