La debolezza dell’azione del governo e la difficoltà di incidere in molti settori strategici è anche responsabilità delle Regioni che, spesso, invece di cooperare lealmente con lo Stato, ne ostacolano l’azione. La Corte Costituzionale, da circa 20 anni, è diventata l’arbitro di una guerriglia istituzionale provocata dalla modifica del titolo V della Costituzione del 2001. Se fossimo un paese normale, avremmo come priorità la sua correzione. Ma non lo siamo. La nostra classe politica, da due anni, sta impegnando il lavoro di tre governi (Gentiloni, Conte I e II) per l’attuazione della disposizione più problematica di quella riforma, l’art. il 116, III comma. L’unico risultato certo è che aumenterà la confusione delle relazioni Stato – regioni. Sfruttando l’ambiguità di questo articolo, il ceto politico del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna, ha avanzato proposte (confluite prima nelle pre-intese del governo Gentiloni, poi nelle fantomatiche bozze dei mesi passati), che miravano ad impossessarsi di buona parte delle risorse erariali. La loro approvazione avrebbe scardinato il sistema di finanza pubblica e reso ancora più ingovernabile il paese.

Il nuovo esecutivo, per mettere ordine in questa confusione, ha predisposto un disegno di legge per vincolare il governo nella stipula delle intese. Il governo assicura che siamo di fronte a una svolta, ma non dice in cosa consista.

Si vuole trasformare il regionalismo differenziato in un’occasione per razionalizzare le competenze delle regioni? Le bozze delle intese precedenti sono cestinate? Le nuove intese non saranno, come le precedenti, un abito cucito dalle burocrazie e dal certo politico delle regioni sull’obiettivo di ottenere più risorse?

Anche se queste fossero le intenzioni del governo (potremo averne la conferma con le intese nuove), il modo di procedere, non convince per una serie di ragioni.

La prima. Il tema del regionalismo differenziato non è la priorità del paese. Il sindacato è contrario e la Confindustria, in un documento del 22 luglio 2019, ha preso chiaramente le distanze dalle ipotesi in quel momento sul tavolo. Lo stesso «Nord produttivo», dunque, vede anzi con timore qualsiasi ulteriore potere regionale in grado di porre barriere alle imprese all’interno del mercato nazionale.

La seconda. Se le proposte eversive sinora circolate fossero state davvero archiviate, e con esse l’idea di usare il regionalismo differenziato per scardinare il sistema di finanza pubblica, lo strumento per razionalizzare le competenze non starebbe certo nel 116, III comma. La strada maestra è la revisione del titolo V; nelle more sarebbe più semplice e più utile, per intervenire sulla potestà amministrativa di Stato e regioni, una legge dello Stato.

La terza. Non ha senso dire che il titolo V c’è e va attuato. L’art. 116, III comma, prevede una possibilità, non un obbligo, perché condiziona la sua attuazione a un accordo, che legittimamente può non esserci.

La quarta. L’impianto del disegno di legge voluto dal ministro Boccia è fragile, perché è ambiguo il 116, III comma: ogni limite che porrà la legge, infatti, potrà essere vanificato dalle successive leggi di differenziazione. Inoltre il suo contenuto è debole perché non si evince se c’è un nuovo indirizzo politico in materia.

Infine. Si dice che se non lo si attua adesso il 116, III comma, il centrodestra nella prossima legislatura farà molto peggio. Una logica demenziale. Una cosa si fa se è utile. Altrimenti, non la si fa, punto. La stessa motivazione fu usata nel 2001 per il Titolo V e stiamo scontando ancora le conseguenze. Le pre-intese Bressa, del resto, targate centro-sinistra, sono quelle che hanno fatto gridare alla «secessione dei ricchi»: invece di migliorare le cose, hanno spinto le regioni ad aumentare le loro pretese. A dimostrazione che il centrosinistra, per una incompressibile coazione a ripetere, dal governo lavora sempre per la Lega.

Per uscire dallo stallo il Paese dovrebbe porsi alcune priorità. Fra queste vi è certamente la riforma del titolo V e il ridimensionamento della burocrazia e del ceto politico delle regioni. Non sono nel programma di governo, ma non per questo non possono diventare programma di un partito politico, sempre che nel paese ne sia rimasto uno.