L’uomo è steso per lungo, fuori la porta della farmacia. La farmacia è chiusa perché è domenica. Le domeniche sono giorni di interregno. C’è una sporta aperta, abbandonata poco più in là, è dell’uomo, ne son sicura. Forse contiene la bottiglia. Solite storie. Vorrei sbadigliare. Invece mi fa impressione. Un liquido scivola verso il tombino. Non so cosa sia, posso immaginare. Salgo in auto, vedo la gazzella della polizia, un agente scende di corsa. Si ferma di colpo, ci pensa magari, che faccio? Scuoterlo con un piede, con una mano, tirarlo su? Un vero rivoluzionario – non parlo dell’agente – un matto, lo avrebbe sollevato, baciato, abbracciato, col rischio di guadagnarsi uno sputo al centro della faccia. Io sono matta. No, non l’avrei mai fatto. La mia carità non serve a nulla. Non è carità, è stucchevolezza, debolezza, mani da signorina. Scommetto che è un polacco. “Nie ma, kurwa” gli urla un tale. Sono connazionali. Si sono trovati davanti a un supermercato. Trovati, scovati. Litigano per cose misere, pochi spiccioli, un cartone di vino, una ciotola di rognosi centesimi lasciati da qualche avventore distratto, impermalito dal cattivo odore. È andata così, scommetto. Sono animali, sono mau mau, dicono qui. Tutte le volte ne trovo qualcuno e tutte le volte se le danno di santa ragione. Uomini impossibili. Esperimenti empirici mal riusciti, che cacchio. Devo chiamarli mau mau. Come i ratti di Mazzarruna, sapete qualcosa di deteriore, Mazzarruna è un Hyde Park. Ho i brividi. Ho la nausea. L’uomo disteso è pietoso, un avventore passa e scuote la testa e io capisco. L’avventore mi guarda con sdegno, direi amico che sì sono sempre loro, cani bastardi senza padrone, pensa agli africani, amico, guardiamoci le spalle.
Conoscevo un tale di Kielce, doveva difendere sempre un’idea, una kurwa, una donna di strada, e finire coi coltelli o con le mani e poi in questura o peggio in guardiola, al pronto soccorso. Mi prese un colpo, un giorno, questo tale di Kielce aveva il volto pesto, il naso rotto, era spaventoso. «Torno a parco e lo mazzo», tagli sua testa, cianciava steso lungo e secco in barella. Lo aveva pestato uno di Strachowice. Alzava il pugno contro un poveraccio, un austriaco vestito di cenci che dimorava nelle grotte, questo tipo di Kielce. Prima erano extracomunitari, erano merda per noi quaggiù, ammettiamolo, ci stavano sul cavolo questi cazzo di polacchi. E adesso fanno la guerra ai neri, e noi dobbiamo capire da che parte stare, giocarcela. Perché è sempre una questione di scelte, bianchi o neri, fascisti o comunisti. Buoni o cattivi. Tolleranti merdosi o inarrestabili teste rasate. Io sto coi neri allora, quelli chiedono e basta, al posto dei rom e degli slavi e non bevono dai cartoni, non ruttano, non se le danno di santa ragione. I connazionali di questo tipo di Kielce blateravano davanti al supermercato, quindi rotolavano – ridendo – contro qualcosa, i denti sporchi di sangue o vino. E la gente passava di fretta, temendo un contagio di non so che tipo, la loro stessa brutalità. Un anziano strillava con astio tutta la sua paura: pusillanimi, via, tornate a casa vostra. Allora a questo tipo di Kielce prese l’inutile orgoglio, e da giù, dalla sua fossa, disse al vecchio di chiudere il becco. «Vecchio, tu conosci a polacchi?». Strisciava con le mani luride davanti alle porte del supermercato e cantava Mury. Mury era Solidarnosc.
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Vorrei evitare lo slavo, il convito della Caritas, un riformatorio, in fondo, considerato i soggetti, eh già, un collegio di disubbidienti, una coda di glabri, di inetti, poveracci. Malgrado ogni tanto ne sia costretta. Ho accompagnato una donna davanti la mensa. Quella donna era una madre. Davanti la mensa c’era una breve fila, aspettavano anche alcuni giovani di colore, un indigeno diceva che non li avrebbero fatti entrare. Non li chiamo africani, però lo sono. Non vedevo lo slavo. Da un angolo emanava un terribile olezzo, era un orinatoio. La donna mi diceva che era una madre, che aveva un figlio bello e bravo, lo dicono tutte le madri ma lui era speciale. Era stato l’altro il più grande, gli aveva dato due dosi. Ma lui si faceva, chiedevo. Si drogava? Lui era speciale diceva la donna, mi indicava il porto, siamo in via Arsenale. Il figlio era morto di overdose. In via Arsenale. In via Arsenale ci vivono solo personcine perbene. E uno poi lì va a morire. Ma non è bizzarro tutto ciò? Il figlio era andato via per sempre certo, via per sempre. L’indigeno non sopportava quei tizi di colore. Odiava tutti, butteri, tossici, le vecchie che parlavano dei figli morti. Vecchie di Mazzarruna l’hyde park. Lui piuttosto non faceva un buon odore no. Però temeva i sudanesi. Erano sudanesi i neri, gli africani, sbarcati, poveracci. Sudanesi. Comu? Scuoteva il testone di buzzurro. Vengono dal Sudan, hanno fame come lei, volli precisare. La donna aveva una certa età, indossava scarpe col plantare. I figli sono pezzi di cuore, sì signora, le dissi. Uno le aveva levato casa da sotto, non so come spiegare. Uno si era venduto casa, per pagarsi l’eroina.
Potete indicarmi il senso di questa vita? Breve inciso.
Tornai in macchina, mi sedetti, ravvivai i capelli, ero a posto. Da lontano seguivo la fila in attesa. La donna si era persa dentro la minima ressa. È tutto vero. La donna era italiana. Non era africana. Ogni tanto le facevo compagnia. Una vecchia povera. Diamo un nome vero alle cose, non mentiamo, non usiamo vezzeggiativi, non usiamo soluzioni accomodanti, usiamo le parole della vita che a certuni ha mostrato ringhiosa la chiostra di denti. Non era un bello spettacolo vi assicuro. Queste cose le so, le ho notate, davanti la mensa della Caritas, quando accompagnavo la vecchia di hyde park, mai viste giubbe tanto squallide, scarpe più usurate, mani tanto grandi o dure o nere. Questa vecchia cambia spesso casa, oggi dimora in un fondaco nell’ex quartiere ebraico; prima, in un feretro, murata, peggio che da morta, contava le ore, i minuti. Da sposata stava in una casa popolare, i mobili erano quelli regalati dalla povera madre, il salotto e la camera da letto. Poi il figlio ha venduto la casa al pusher per comprarsi l’eroina. Era vedova. Allora la madre andava a trovare il figlio, in una grotta, nella via Arsenale, ma lì dimorano personcine perbene: l’arteria breve quasi periferica che insegue la linea del mare, il suo profilo frastagliato che incontra l’ostinazione della roccia. Detta così suona meglio. Suo figlio straparlava. Aveva troppa roba in corpo. Ascolto lo stesso racconto, lo stesso intervallo, la stessa nebulosa memoria che si inceppa lì alla fine quando deve dire che uno di loro, uno dei ragazzi era morto. Tornano le mie ossessioni: come ha fatto a capire che si faceva? Quanti anni aveva, si bucava? La donna fuma, racconta ancora, è la stessa storia. Il figlio dormiva sempre. Aveva tredici anni. Come Christiane. Come Babette. Come Stella. Dello zoo di Berlino. Per questo guardo gli altri ammirata. Beati loro, con le loro card, le loro Visa, i loro fottutissimi Suv. Non sanno nulla, non temono i cattivi odori. Non amo le lotte di classe. Oggi sarebbe un passaggio superato, ridicolo persino indugiarvi. Classista non è una categoria in uso. Non esiste più una classe media, non esiste la borghesia. Di che parliamo. Oggi siamo topi delle banlieu, siamo tutti portoricani, ultimi nella scala sociale, condannati no stop a esserlo. Oppure i pochi prescelti, ricchi da fare schifo. Lo slavo dice che bisogna partire prima, se vuoi farcela, nella vita, come nelle risse, lui di solito usa le craniate, non ci lascia mai il dente. È un lottatore, lo preferisco agli abulici, perché è il destino a renderci gli uni o gli altri. I topi di Mazzarruna, quell’hyde park in periferia, non erano migliori dello slavo che beve vino dal cartone. Quelli si facevano di ero, la mattina andavano al Sert per il metadone o c’erano i malati di aids e l’aids era peggio della peste in quegli anni. Esperimenti empirici mal riusciti dicevo. Poi c’è una selezione naturale e salvifica delle specie, certo come no. Dovevo cascarci dentro.
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Le grotte sono rupi al centro della città, le grotte dove muoiono i polacchi. Mentre gli africani vi riparano solo la notte e non ci muoiono. Le grotte di cui vi riferisco sono la vera metafora dei nostri vizi morali, anzi la grancassa di ogni vizio morale, la carogna di un mondo civile fasullo. Sono una voce fuori campo adesso e non sono del tutto attendibile, forse. Però desumo anche quanto segue: gli abitatori delle grotte detenevano un qualche superiore gene, portatori di una specie di meschino superomismo. Tutti i miseri a guardar bene sono la somma dell’uomo moderno, il suo debole tentativo di guadagnarsi l’anima, uno spirito, fosse pure nazionalista.
Yurek era un nazionalista. Yurek di uno sconosciuto voivodato di Polonia. Ogni mattina Yurek sedeva sulla panca del parco. Era in Italia finalmente. L’Italia era la retrovia di un parco, niente di più falso. Malediceva la sua vita, lamentandosi e tenendosi lo stomaco bucato, con un braccio secco e tremolante. Urlava, «kurwa, smetto domani, giuro che smetto», perché stava male. Tutti gli ubriaconi promettono promesse inesatte. Yurek rigettava alcol e maledizioni, temeva di trovarsi come Gregorio o l’altro, Jaruzelski – polacchi ubriaconi come lui – nello spazio d’un mattino, addossato al tronco della magnolia, incapace di sollevare le gambe in cancrena. Quella era la fine. Gregorio non si alzava più, non restava che aspettare, aspettare che morisse con le spalle abbandonate al tronco della magnolia, eretto innaturalmente. Vedevo tutto questo, allora, un montaggio mostruoso di quel che poteva diventare la vita a lasciarla fare senza giudizio o indugio. Perciò dico: è una questione di scelte, giusto?
Yurek avanzava allungando il suo braccio secco, non capivo, chiedeva spicci, gli altri infastiditi frugavano in tasca, ricominciava il giro, ricominciava a bere. Yurek la rota non la faceva fino alla fine, perché beveva prima. Come quel personaggio di Hlasko che dice: «la fine è sempre la fine, dovremmo risolverci a finirla quando ormai tutto è alle nostre spalle». Nazionalisti, già, per salvarsi l’anima, servitori alla corte di un meschino superomismo. Non perdenti, macché. Disuguali.