Conclusione della trilogia «sull’essere un essere umano», Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza ha conquistato il Leone d’oro all’ultima Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Primo film realizzato interamente in digitale da Roy Andersson, ha conquistato la giuria del festival guidata dal compositore Alexandre Desplat. Composto da trentanove piani-sequenza, tutti composti ed eseguiti impeccabilmente, fotografati da István Borbás (che ha anche consigliato l’autore svedese su come gestire la transizione dalla pellicola al digitale), il film è una reinvenzione eliotiana sugli uomini vuoti il cui mondo scompare non con un boato ma un lamento. Un cadaverico aplomb surrealista, da teatro delle marionette in disuso, e una catatonica ripetizione delle situazioni più disperate (i due commessi viaggiatori e i loro articoli per recare felicità al mondo), sono la cifra portante di un film la cui matrice evidente risiede nella riproposizione essiccata di certi stilemi surrealisteggianti della nová vlna e la lezione di Miklos Jancsò.

Sulla serietà del progetto anderssoniano, dunque, nulla da eccepire. Purtroppo è proprio la sua esibita intenzionalità autoriale a sottrarre fascino a un’operazione che resta come intrappolata nei suoi manierismi e nel suo rigore in fin dei conti inerte. Nel tracciare la parabola discendente della civiltà occidentale, osservata dalla culla della socialdemocrazia protestante, Andersson chiama in causa l’idea stessa di un’identità europea affidata quasi esclusivamente a un’idea economica e non a una idea di redistribuzione della felicità. I conti, però, non tornano del tutto filmicamente. Perché a eccezione del piano-sequenza con protagonista Carlo XII, davvero la cosa più miklosjancsiana vista al cinema da decenni a questa parte, resta in fondo una fastidiosa insoddisfazione nei confronti del film.

Come se il calcolo di un Samuel Beckett riscritto alla luce dell’arte degenerata odiata dai nazisti (evidenti i riferimenti pittorici a Otto Dix), e interpretato da una coppia di schlehmil catatonici che a sua volta rimanda con ogni evidenza a Laurel e Hardy, restasse congelata nell’evidenza del discorso e del gesto filmico e faticasse a farsi anche piacere puramente filmico. Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza si presenta dunque, paradossalmente, nonostante la sua allegra e paradossale ilarità funebre, come un film privo di contrasti.

Calato completamente nell’abbacinante luce del suo progetto autoriale, dal quale l’ambiguità e la possibilità di eccedere il perimetro del discorso dato in partenza non è mai contemplata. Un’idea di cinema autoriale un tantino vetusta dunque, come gli ultimissimi film di Angelopoulos per esempio, che non si può non trattare con rispetto e deferenza, ma della quale allo stesso tempo non si può fare a meno di notare l’evidente autoreferenzialità. Perché, nonostante la sua messinscena complessa e coreograficamente articolata (da notare anche l’ottimo lavoro relativo al sound design), Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza si limita a riproporre la maniera (anche altissima) di un cinema che è stato, senza per questo riuscire a pensarsi come contraddizione rispetto all’oggi ma solo come riproposizione di ciò che è stato.

Ed è forse per questa ragione che il film finisce per assomigliare al modello per eccellenza di film d’arte e d’essai piuttosto che a una creazione urgente, magari imperfetta, ma aperta sull’oggi. Come un lembo di cinema che piuttosto che provare a porre in contatto con quanto confina, Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza finisce sembra preferire isolarsi entro le proprie frontiere. Film dunque oscillante fra gusto per la composizione e determinismo del discorso (formale e non), Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza si offre come luogo privilegiato per osservare cosa resta di una certa idea di cinema d’autore europeo.