Viviamo tempi confusi e contraddittori in cui l’attenzione è tutta concentrata su una politica sempre più spettacolarizzata e aggrappata a temi simbolici che aggrediscono la superficie dei problemi, ma raramente ne intaccano la sostanza. Vale la pena invece ragionare su indizi che ci possono parlare del senso di marcia profondo in cui è diretta l’economia. Ne propongo due lontani tra loro sia per qualità sia per consistenza, ma che possono risultare esemplificativi.
Il primo riguarda la cantieristica in Cina, un settore che con la crisi è stato dimezzato, ma che potrebbe riprendersi dato che il governo punta a diventare autosufficiente nella catena del trasporto marittimo e proverà a riaprire i cantieri chiusi. Il problema sarà recuperare gli investimenti necessari che in passato provenivano dalla finanza occidentale.

C’è, infatti, chi potrebbe nuovamente annusare l’investimento facile e redditizio in questo settore, sebbene la sovra-capacità delle stive abbia acuito la crisi di un settore già colpito dal calo dei traffici globali. Sergio Bologna ha descritto il meccanismo perverso che nel tempo ha trasformato le navi da prodotti industriali a prodotti finanziari. L’ambizione cinese a tornare in sella nello shipping, compreso il settore della canitieristica, però non fa i conti con gli ultimi dati del primo semestre di quest’anno che parlano di un arretramento dei traffici su base annua proprio nei porti di Hong Kong, Shanghai e Singapore.

Il secondo indizio, ben più modesto, è nostrano. Il ministero dell’Istruzione ha apprestato un questionario da fornire agli studenti per misurare il loro grado di disponibilità ad attivare uno strumento finanziario per proseguire gli studi dopo la scuola. Il cosiddetto «prestito d’onore», una formula per favorire l’indebitamento precoce tipico del mondo anglosassone e di cui si teme il rischio bolla, almeno negli Usa. Mentre si prevede un diffuso rallentamento della crescita, in Italia si studia come far ripartire il debito privato in una delle sue forme più odiose. Le condizioni per una stabilizzazione economico-finanziaria negli ultimi anni si sono prodotte grazie a una politica monetaria ultra-accomodante.

Ma le nubi a livello internazionale prodotte da un quadro all’insegna dei conflitti commerciali effetto di una stentata ripartenza pesano eccome. La ripresa, dunque, è stata prevalentemente l’effetto delle politiche espansive sul versante monetario, le quali hanno consentito primariamente un recupero a partire dai fondamentali finanziari stessi. L’impressione è che la montante massa monetaria in circolazione sia servita a stabilizzare il contesto, grazie a una ripartenza della finanziarizzazione dell’economia. Tale parabola non è stata solo appannaggio del mondo anglosassone o dei paesi emergenti (formula sempre più imprecisa), ma si è propagata anche in paesi come il nostro. La politica monetaria accomodante ha consentito anche in Italia il ritorno dell’inflazione su indici accettabili e ha consentito l’espansione dell’erogazione del credito grazie a condizioni eccezionali di offerta. A ciò va aggiunta una moderata ripresa di consumi e investimenti, quest’ultimi trainati da stimoli fiscali.

Secondo le stime di Banca d’Italia la crescita del Pil nel 2018 sarebbe attribuibile per circa due terzi alle politiche espansive, che invece spiegano per intero quella avvenuta nel 2016. Una tendenza al contenimento, dunque, seppur ancora con un’incidenza ragguardevole.

Come se gli effetti dell’espansione monetaria non riuscissero a dar vita a un ciclo economico virtuoso autonomo, ma solo a un’economia fondata ancora una volta sul debito. Nel suo libro sui limiti del mercato, l’economista belga Paul De Grauwe individua nei mercati finanziari una «esternalità negativa», ma per il momento nell’economia post-crisi questi sembrano tornati a essere il «motore primo» sia al centro sia alla periferia.