Negli intenti del curatore della Biennale Juan A. Gaitán e del suo gruppo, Berlino viene trasformata nell’espressione cartografica di una cultura prima coloniale e divisa per censo, dopo postcoloniale e migrante che ha separato la città e le sue architetture per essere città in bilico tra Oriente e Occidente, tra delimitazioni e cancellazione di confini, identità e modificazione, assunti critici e libertà di espressione. E questo instabile equilibrio di coppie quasi antitetiche, insieme alla dislocazione in punti della città tanto strategici quanto distanti tra loro, frammenta l’idea curatoriale che non sempre si ricompone nello sguardo del visitatore, ma che anzi si dissemina lungo un percorso in cui si stenta a ritrovare le coordinate fino a diventare una sorta di Doppelgänger, o un doppio visto in un caleidoscopio.
Che fare quindi? Conviene provare a affidarsi a quegli artisti che con lavori e visioni quasi impalpabili restituiscono il filo per arrivare fino alla fine del percorso. Una delicata e espansa ricognizione naturalistica è quella proposta da Irene Kopelman in Vertical Landscape che si affida all’emblematicità di una pianta (la liana) e di un animale (il granchio fantasma) studiati nel canale di Panama per creare una leggerissima narrazione di cosa significhi essere un organismo alieno, non-nativo (intruso?). Gouaches, sottilissimi tratti di matita, molte gradazioni di verde, piccoli «risparmi», fogli e fogli ordinatamente sparsi nella sala ricostruiscono un universo dove si ricompone, ma non si risolve, la coppia ambiente ospitante-individuo ospitato (ma non accolto). Ma quali sono allora le modalità che intendiamo mettere in campo per riconoscere un «altro»? Spesso le più facili. Cancellando ogni caratteristica culturale, individuale, stratificata e quindi più agilmente estraendo al di fuori dalla faticosa e temibile categoria di «complesso».
Su questa tragica facilità di accesso voluta e imposta dalla comunicazione si concentrano Beatriz González, colombiana, e Shilpa Gupta da Mumbai. La prima trasformando in pittografie l’intero universo culturale, nonché l’aspra difficoltà a sopravvivere, delle società rurali colombiane, assimilate con la presunzione di un’occhiata rapida a quei segnali che – sinteticamente e in modo accattivante – indicano dove sia permessa o meno la presenza degli animali nelle grandi città e laddove il pattern viene a mancare non rimane che la traccia appena segnata di un’orma sconosciuta.
La seconda che propone Cento nomi falsi per iscrivere i bambini a scuola (anche titolo dell’opera) in una sorta di nominalismo entomologico e catalogatorio escogitato dal grande simulacro delle Sicurezze Nazionali, per cui se non si viene precisamente identificati neppure si è, poco importa se quell’identificazione è del tutto fittizia e mostrata all’osservatore sfocata.
Dopo aver sistemato migliaia di individui e intere popolazioni dentro un ambiente, aver dato loro la riconoscibilità di un’icona, avergli inferto un nome in una precostituita tassonomia, cosa manca ancora? La costruzione a posteriori di una Storia, meglio di un’archeologia. A questo pensa Mariana Castillo Deball che, muovendosi tra gli oggetti delle antiche civiltà mesoamericane del Museo etnografico di Dahlem (luogo principale della Biennale), propone l’estraniazione dal senso di quegli oggetti tramite calchi, stampi, facsimili che restituiscono la loro descrizione storica capovolta, come vista in negativo facendo nascere l’esigenza nell’osservatore di creare un mondo parallelo al fine di comprendere il nuovo significato che però altro non è che un significante, una percezione mancante di una parte fondamentale affinché sia chiaro il senso. Ma quando il senso somiglia alla verità, allora diventa irrilevante.