L’Olp smentisce se stesso: ad un giorno dall’annuncio dell’accordo tra fazioni palestinesi del campo di Yarmouk e il governo di Damasco per la creazione di un’armata contro l’Isis, ieri l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha dichiarato di non voler prendere parte al coordinamento militare per evitare uno spargimento di sangue. Eppure giovedì era stato l’emissario dell’Olp dalla Cisgiordania, Ahmad Majdalani, ad annunciare l’accordo.

A monte i fragili equilibri dentro e fuori Yarmouk, tra i gruppi palestinesi, l’Olp e Damasco. Ne abbiamo parlato con Nidal al-Azze, direttore di Badil, organizzazione che promuove il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

Quali sono i rapporti storici tra Yarmouk e Damasco? La caduta del campo sarebbe un fallimento per il presidente Assad?

Yarmouk è la capitale politica del movimento di resistenza palestinese, tutti i partiti politici (compreso Fatah che non ha, dagli anni ’90, buoni rapporti con Damasco) hanno avuto propri uffici nel campo, coordinandosi con il governo siriano. Assad ha sempre voluto mantenere buone relazioni con Yarmouk perché il campo rappresenta la questione palestinese e ricopre una posizione strategica dentro la capitale. Ed infatti quello che Damasco non ha fatto a Yarmouk – inviare dentro l’esercito per cacciare le opposizioni presenti – lo ha fatto in altri campi, dove non ha esitato a combattere strada per strada i ribelli.

Perché l’Isis, già presente nel campo, attacca solo adesso? Per indebolire Assad o per schiacciare le altre opposizioni?

Per l’Isis, come per al-Nusra, Yarmouk è strategico. L’offensiva islamista è parte dello scontro regionale: quello che sta accadendo a Yarmouk non è un fatto isolato, ma legato ad altri fronti, dallo Yemen all’Iraq. Per comprenderlo si deve fare un passo indietro: Autorità Palestinese e Hamas hanno affermato più volte che la questione siriana è un affare interno nel quale non interferire, hanno dichiarato che Yarmouk sarebbe rimasto neutrale, ma nella pratica sono intervenuti. Abbas ha votato a favore delle sanzioni alla Siria e alla sospensione di Damasco dalla Lega Araba, quando poteva astenersi come fece l’Iraq.

Dall’altra parte Hamas, convinto della prossima caduta di Assad, ha rotto nel 2012 con Damasco, dicendo di non voler intervenire nella guerra civile. Nella pratica però lo ha fatto attraverso la milizia Akfan Beit al-Maqdis che, per garantirsi il controllo su Yarmouk, è scesa a patti con al-Nusra. Solo ora Hamas realizza che gli equilibri regionali sono cambiati e che nessuno, nemmeno gli Usa, pensano più alla deposizione di Assad. Oggi l’obiettivo è mantenere la presenza sul terreno così da prendere parte alla futura transizione politica.

Oggi cos’è cambiato? Qual è il ruolo giocato da Hamas nella battaglia per Yarmouk?

Hamas è travolto dal caos regionale: l’Iran si rafforza e Assad non cade. Hamas non può non tenerne conto, ha bisogno di salvaguardare la propria esistenza dentro Yarmouk: la zona che prima controllava (e dove vivono oggi i 18mila profughi rimasti, per lo più familiari dei combattenti) ora è in mano all’Isis. Per questo era pronto due settimane fa a siglare un accordo semi ufficiale con i gruppi palestinesi e Damasco: avrebbe accettato di ritirarsi dal campo e permettere il ritorno dei civili. Al-Nusra ha rigettato l’accordo e il 31 marzo, il giorno prima l’ingresso dell’Isis, il leader di Afkan Beit al-Maqdis è stato ucciso perché fautore dell’intesa. Al Nusra sa che uscire da Yarmouk significherebbe perdere le posizioni a Damasco. Per questo, se combatte l’Isis in altre zone della Siria, a Yarmouk lo sostiene.

Ieri l’Olp ha rigettato l’accordo di cui è stato negoziatore tra fazioni palestinesi e Damasco. Eppure oggi è necessario prendere le armi per salvare Yarmouk.

Damasco ha lasciato l’operazione militare in mano ai palestinesi: coordinerà l’azione ma senza prenderne direttamente parte. Perché, a liberare Yarmouk, devono essere i palestinesi. Se sconfiggeranno al-Nusra e l’Isis, Yarmouk potrebbe essere modello per altri campi profughi nel territorio, che sarebbero incoraggiati a combattere i gruppi islamisti a fianco del governo Assad.

Dal punto di vista politico, l’accordo siglato giovedì rappresenta un grande cambiamento per i partiti palestinesi presenti a Yarmouk e avrebbe potuto rappresentarlo anche per l’Olp. Molti di questi gruppi, infatti, non sono membri dell’Olp: Pflp-Gc, Fatah al-Intifada, Jabhat al-Nidal (diviso in due dopo Oslo, una parte favorevole al processo di pace è rimasta nell’Olp, l’altra contraria ne è fuoriuscita) e As-sai’qa (gruppo palestinese-siriano, una sorta di partito Baath in Palestina). Ufficialmente Akfan Beit al-Maqdis non ha aderito all’accordo, ma il gruppo è consapevole di non essere più in grado di difendersi e teme per la sua esistenza: di sicuro non interferirà nel processo di liberazione.

Il comportamento dell’Olp va attribuito ai cattivi rapporti con Damasco figli del processo di pace degli anni ’90: dopo la decisione di Arafat di negoziare con Israele, avvicinarsi al Golfo riconoscere il governo Mubarak, Fatah ha rotto con Damasco e, pur restando il primo partito palestinese in Siria, ha visto limitare le sue attività. La stessa cosa non è accaduta con i gruppi palestinesi fedeli ad Assad: i suoi maggiori sostenitori – Pflp-Gc, Fatah al Intifada e As-sai’qa – non erano autorizzati da Damasco a organizzare operazioni militari al confine con Israele, ma erano liberi di svolgere altre attività, in primis procurarsi le armi e organizzare training e addestramenti in territorio siriano.