Ci sono poche provocazioni che riescono a colpo sicuro come parafrasare la frase simbolo dell’infamia nazista, «Arbeit macht frei». Nei Paesi islamici il pantheon delle parole “esplosive” è probabilmente più ampio ma in Occidente non c’è quasi bestemmia o vituperio che susciti lo stesso moto di sdegno corale provocato – giustamente – ogni volta che si usa in modo strumentale la frase simbolo dell’Olocausto. È un gioco facile, costa poca fatica e rende molto in termini di eco mediatica. Grillo lo sa, e lo sapevano bene tutti coloro che negli anni senza ritegno hanno oltraggiato il dolore di milioni di persone.

Una frase, quella che campeggiava su alcuni campi di sterminio nazisti, talmente simbolica che un collezionista polacco la fece trafugare nel dicembre del 2009 dal cancello di ingresso di Auschwitz, dove però tornò appena qualche giorno dopo una volta arrestati gli autori del furto. Quella scritta forgiata a forza da Jan Liwacz, un fabbro polacco entrato nel campo come prigioniero nel giugno del 1940, è diventata talmente un’icona da solleticare, per esempio, nel 2011, l’ispirazione artistica di un giovane (e forse molto confuso) precario romano che nel quartiere del Pigneto, proprio nel giorno dell’anniversario della Liberazione, fece comparire durante la notte un’opera che, a suo dire, voleva essere «provocatoria ma non insultante»: un’arco in ferro identico a quello di Auschwitz ma con la scritta tradotta in inglese, «Work will make you free». Ma se l’eccesso di indignazione, e forse anche un pizzico di ignoranza, può suggerire di accostare lo sterminio pianificato di un popolo alla vita senza sbocco delle «periferie-lager», c’è anche chi in questi ultimi anni ha usato intenzionalmente quel motto come manganello razzista: nei primi mesi del 2012, per esempio, al clou della crisi finanziaria della Grecia, quando la “troika” mostrava la sua faccia peggiore nei confronti di Atene, alcuni giornali conservatori greci raffigurarono la cancelliera tedesca Angela Merkel in uniforme nazista sotto alla scritta «memorandum macht frei».

Un vizietto che non è mica solo della destra. Fece molto scalpore, per esempio, nel maggio 2006 (Fausto Bertinotti era stato appena nominato presidente della Camera) una vignetta di Enzo Apicella pubblicata su Liberazione, che, in occasione dei tagli dell’Ue alla Palestina, raffigurava la famigerata cancellata posizionata su un varco nel muro israeliano che circonda i Territori occupati, con la scritta: «La fame rende liberi». «È satira», «non era antisemita, era solo drammaticamente filo-palestinese», si difese l’allora direttore del quotidiano di Rifondazione comunista, Piero Sansonetti, che comunque porse, qualche giorno dopo, le sue scuse alla comunità ebraica. Satira o no, è facile e il pesce abbocca sempre.