Sport e musica, un’accoppiata sempre più frequente. Ci sono discipline, come ginnastica e pattinaggio artistico o il nuoto sincronizzato, che proprio non possono prescindere dalle sette note. E, come accade in centinaia di situazioni della nostra vita, anche negli eventi sportivi la musica è sempre più utilizzata come riempitivo. Nei momenti di pausa tra un set e l’altro nel tennis o in attesa della ripresa del gioco tra i tempi di una partita, agli spettatori sugli spalti viene spesso propinata a tutto volume la hit del momento o qualche evergreen. Ma i brani più accomunati alle grandi manifestazioni sportive sono gli inni nazionali. Anche le Olimpiadi di Parigi 2024 non faranno eccezione e, come da regolamento olimpico, gli atleti vincitori di una medaglia d’oro avranno l’onore di sentir risuonare per ottanta secondi il proprio inno nazionale. Tra l’altro quest’anno cade un centenario: fu infatti durante l’Olimpiade del 1924, proprio a Parigi, che venne adottata la regola di suonare gli inni per celebrare le vittorie.
RISPOSTA ALLA «HAKA»
L’usanza di eseguire l’inno nazionale in concomitanza di un evento sportivo era nata qualche anno prima, come risposta di una squadra nazionale e del suo pubblico alla haka dei rugbisti neozelandesi. Nel 1905 la nazionale di rugby della Nuova Zelanda era già lo squadrone che conosciamo. Quell’anno gli All Blacks sbarcarono in Gran Bretagna per la loro prima tournée fuori dall’Oceania e, dopo aver sbaragliato tutte le squadre inglesi, scozzesi e irlandesi con cui giocarono, alla fine si presentarono anche in Galles. Il match in programma il 16 dicembre a Cardiff contro la nazionale gallese fu una delle prime nella storia dello sport a essere presentata come «la partita del secolo». Il Galles infatti era il campione in carica dell’Home Nations (l’attuale Sei Nazioni, che allora era giocato solo dalle nazionali britanniche e irlandesi) e dunque l’interesse per l’incontro era molto alto. Già allora i rugbisti della Nuova Zelanda erano soliti eseguire la haka, la danza di guerra tipica dei maori. Pare che a quei tempi fosse interpretata in modo meno teatrale e minaccioso, sufficiente però a impressionare pubblico e giocatori avversari. I dirigenti della federazione rugby gallese si resero immediatamente conto della forza della haka assistendo ad alcune partite della tournée britannica. In vista del match di Cardiff i gallesi pensarono al modo migliore per reagire all’impatto emotivo della danza maori. Decisero così di aspettare che i neozelandesi avessero finito per poi cantare il loro inno nazionale, Hen Wlad Fy Nhadau (che in gaelico significa La vecchia terra dei miei padri). Prima la squadra e poi in modo spontaneo tutto il pubblico presente intonarono il brano. «Immaginate 40mila persone che cantano il loro inno nazionale con tutto il fervore di cui sono capaci. È stato il momento più impressionante a cui abbia mai assistito su un campo da rugby» raccontò poi il capitano del Galles Dave Gallagher, e anche il capitano degli All Blacks, Paul Harrison, disse di non aver mai visto nulla di simile. Per l’epoca fu un evento eccezionale perché sino ad allora gli inni erano eseguiti solo in circostanze solenni. L’effetto che ebbe contribuì a diffondere l’usanza e a farla diventare una prassi, dapprima nel Regno Unito, poi nel resto d’Europa e via via altrove sino alla consacrazione ufficiale ai Giochi olimpici del 1924. Da allora per i musicofili le Olimpiadi sono il momento per apprezzare quella particolare forma di composizione rappresentata dall’inno nazionale.
Grazie al diffondersi dei grandi avvenimenti sportivi, questi brani, un tempo relegati al singolo paese e alle sue cerimonie, sono diventati noti ovunque. A un pubblico abituato alla musica classica queste composizioni evocano paragoni evidenti: la musica operistica italiana, ma anche il grande sinfonismo tedesco. Molti sono solenni, altri probabilmente non supererebbero il vaglio di una causa per plagio, altri ancora sono così malinconici che non ci si crede a immaginarli suonati dopo una vittoria sportiva. Curioso notare come l’ambito degli inni nazionali è probabilmente l’ultimo in cui resiste un forte retaggio coloniale. Quasi tutti infatti sono scritti in uno stile musicale classico, occidentale, databile tra il Sette e l’Ottocento, l’epoca d’oro delle marce militari. Di fatto nessuna nazione al mondo utilizza il proprio stile musicale popolare. Quasi sempre sono zeppi di riferimenti storici ed esprimono sentimenti di stima e attaccamento verso la propria nazione. Inutile negare che sono molto diffuse immagini e retoriche figlie dell’epoca di composizione. Retoriche che possono risultare in contrasto con lo spirito olimpico che, come sappiamo, è all’insegna della pace e dell’amicizia tra i popoli fin dai tempi dell’antica Grecia, quando vigeva la tregua olimpica per chiunque partecipasse ai Giochi. In questo tempo cessavano tutte le inimicizie pubbliche e private, e nessuno poteva essere molestato. Tregua olimpica che si vorrebbe riproporre anche per questi Giochi. L’anno scorso infatti una risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU ha chiesto un cessate il fuoco nei conflitti in corso in occasione delle Olimpiadi francesi e, in questo senso, si è espresso anche il presidente Macron.
IN CONTRASTO
In contrasto però con lo spirito di pacifica convivenza che pervade le Olimpiadi, molti inni patriottici celebrano violenza, sangue e vendetta. Probabilmente il Nobel per la pace non verrà mai assegnato all’autore del testo di quello del Sahara Occidentale perché per ben due volte esorta: «Taglia la testa all’invasore! Taglia la testa all’invasore!». In Algeria non sono da meno («La nostra melodia è il suono delle mitragliatrici») e il Vietnam sale di sicuro sul podio degli inni più bellicosi con la strofa: «La strada che porta alla gloria è lastricata dai cadaveri dei nostri nemici». Ma guai a pensare che solo nazioni forgiate di recente da aspri conflitti abbiano bisogno di retoriche truculente. Anche paesi paladini della convivenza nei loro canti esaltano la violenza e il versamento di sangue. I belgi cantano «O patria, per te verseremo il nostro sangue» e i francesi «Possa il sangue impuro irrigare i nostri solchi». L’Italia nell’inno di Mameli accusa l’Austria non solo di far scorrere il sangue ma anche di berlo, salvo poi venirne avvelenata: «Il sangue d’Italia, il sangue polacco bevé col cosacco, ma il cor le bruciò». La Gran Bretagna non è da meno e si rivolge direttamente a dio per chiedere: «Disperdi i nostri nemici, falli cadere! Manda in confusione la loro politica, rendi vani i loro trucchi da furfanti». All’inno della Turchia va invece la palma di testo più splatter: «Lacrime di sangue sgorgheranno da ogni mia ferita e il mio corpo senza vita sorgerà dalla terra». Insomma, strofe davvero poco in sintonia con lo spirito olimpico. E allora non resta che auspicare di sentire l’inno nazionale dell’India, che vanta addirittura la firma di un premio Nobel, Rabindranath Tagore. Oppure quello del Burkina Faso, scritto dal rivoluzionario marxista Thomas Sankara, che nel 1983 divenne presidente del paese e morì assassinato nel 1987. Sankara era chiamato anche il Che Guevara africano e rappresenta una singolare figura di militare, politico e uomo di lettere. Entrambi i testi inneggiano alla pacifica convivenza tra i popoli. Ma quello che speriamo di sentire a Parigi 2024 è l’inno nazionale del Nepal. Sembra un po’ una canzoncina da recita scolastica, ma non ci si deve lasciar ingannare: è uno degli inni più politici di tutta l’Asia, visto che esalta le differenze razziali, linguistiche, religiose e culturali del Nepal, definita «nazione progressista».