È difficile non leggere l’amara vicenda del disastro petrolifero del Polcevera alla luce dell’esperienza referendaria che è stata l’occasione per parlare dei rischi della droga petrolifera che circola nelle vene della nostra società. Le maree nere, gli oleodotti che esplodono, sono solo la cima dell’iceberg di un fiume di idrocarburi (e soldi) che inquinano mari, fiumi e laghi, terre e cielo. E, ovviamente, anche la politica: non solo in Italia.

Di guerre per il petrolio ne abbiamo viste fin troppe (dell’ultima «guerra promessa», in Libia non si sente più parlare… ) ma abbiamo appena assistito a un capitolo di una guerra oggi forse più importante: quella tra il petrolio (e gli idrocarburi in genere) e le nuove fonti energetiche. Meno sanguinosa, ma non meno spietata. Abbiamo infatti avuto il privilegio di assistere alla prima campagna referendaria astensionista di un governo della Repubblica che si adopra per mantenere in vigore un codicillo che è solo l’ennesimo favore ai petrolieri (preoccupati dal nuovo che avanza).

Il testo su cui ci siamo espressi è stato inserito lo scorso dicembre dal governo nella Legge di stabilità. È singolare che il medesimo governo non abbia avuto il coraggio di difendere il suo operato, invitando a votare No, preferendo raccontare un sacco di frottole. Ad esempio, sull’occupazione. Come poteva questo referendum mettere a rischio 11.000 posti di lavoro? Di questi allarmi non si era mai sentito parlare prima, quando (fino al Natale scorso…) vigevano le stesse regole che il referendum avrebbe, semplicemente, ripristinato. Forse, quei 74 posti di lavoro (tanti sono gli «occupati» sulle piattaforme oggetto del referendum) sono più a rischio adesso, vista la valanga di ricorsi annunciati alla Commissione Europea: rischiamo una multa salata.

Una concessione di suolo pubblico deve avere precisa scadenza. L’Ue ci ha bacchettato per aver concesso il «rinnovo automatico» delle concessioni ai balneari. Starebbe zitta su concessioni che possono durare «a piacere» per i petrolieri?

La verità è che quei posti di lavoro (gli 11.000 e tutti gli altri del settore) sono a rischio comunque, visto che in tutto il mondo l’occupazione connessa alle attività «petrolifere» è in calo. Per il semplice motivo che gli investitori hanno capito che l’era del petrolio sta finendo e che è il momento di guardare altrove.

Negli scorsi anni, le rinnovabili hanno avuto una crescita tumultuosa in Italia, con errori, sprechi e (come sempre, dove ci sono soldi) intrusioni affaristiche e mafiose. Sarebbe stato saggio regolare e guidare questa crescita, non sabotarla come hanno fatto gli ultimi tre governi. Negli ultimi anni il settore ha perso decine di migliaia di posti di lavoro (secondo il Gse, dal 2008 al 2014 gli occupati (stabili e temporanei) sono passati da 195.000 a 75.000!). Che adesso il Primo Ministro ci ricordi che l’Italia ha un record nel settore fa un po’ strano. Ricorda quell’altro Premier che a L’Aquila, dopo il terremoto, inaugurava prefabbricati regalati da altri. La verità è che nel 2012 in Italia sono stati attivati oltre 150.000 impianti fotovoltaici; nel 2014, primo anno di vita di questo governo, solo 722.

Incidenti come quelli di Genova ce ne sono stati e, purtroppo, ce ne saranno ancora. Sono il pedaggio che una società malata di petrolio deve pagare (come i veleni nell’aria che respiriamo, mari inquinati, eccetera). Quanto a lungo dovremo pagare questo pedaggio, dipende anche da noi. Domenica abbiamo avuto almeno la possibilità di dire la nostra. Se ne avremo altre, di possibilità, vediamo di non sprecarle.

* direttore delle campagne Greenpeace Italia