«Era una semplice testa, giacché il collo e le spalle vi si intravedevano appena; (…). Il braccio, il seno e fino le ultime ciocche di capelli, si fondevano in modo da sfuggire ad ogni indagine, nell’ombra indefinita ma intensa che serviva da sfondo all’insieme. La cornice era ovale, magnificamente dorata e foggiata a rilievi sul gusto moresco»: a queste famose pagine del The Oval Portrait del Poe vien fatto di pensare leggendo alcuni dei testi raccolti da Daniela Ferrari e Andrea Pinotti in La cornice Storie, teorie, testi (Johan & Levi, pp. 232, euro 24,00, con illustrazioni).
Il libro si propone come un’indagine sulla funzione della cornice condotta sotto il profilo teoretico prima che storico, per cui quell’amatore di cose rare che, tratto in inganno dall’argomento, vi cercasse, insieme alla squisitezza della riflessione, un florilegio di erudizione speciosa e brillante resterebbe un po’ deluso dall’austerità del volume. Giacché non si è innanzi a qualcosa che assomigli alla Storia del ritratto in cera di Julius von Schlosser bensì a una crestomazia di saggi diversi, sia per quel che attiene agli intenti che allo stile, attorno a un unico tema, che è appunto quello della cornice. L’antologia di autori (Simmel, Ortega y Gasset, Bloch, Schapiro, Derrida, Arnheim, Marin, Gruppo μ, Stoichita) non manca, tuttavia, di un progresso che dall’estetica muove alla semiotica in una graduale ma inarrestabile rarefazione.
La cornice, scrive José Ortega, svolge una funzione simile a quella che aveva la piuma sul copricapo degli indiani d’America: entrambe richiamano l’attenzione su di sé soltanto per dirottarla altrove. Simbolo di vanità, la piuma non può essere ella stessa vanitosa! Né può esserlo la cornice. Al pari del buon interprete, essa deve servire, non essere servita. Non le si addice perciò un’eccessiva ridondanza di ornamenti che finirebbe per incettare gli sguardi, come facevano quegli istrioni tanto biasimati da Francesco Algarotti i quali non volevano «a niun patto darla ad intendere all’udienza; e se ella per caso gli avesse mai presi in iscambio di Achille o di Ciro, che sono da essi rappresentati sulle scene, fanno ogni lor potere di trarla d’inganno, e di certificarla, che essi pur sono in realtà il sig. Petriccino, il sig. Stoppanino, il sig. Zolfanello». Ortega raccomanda la cornice piana a foglia d’oro perché capace, coi suoi mobili e vivaci riflessi, di attirare lo sguardo, senza tuttavia irretirlo.
Le stesse ragioni spingono Georg Simmel a raccomandare che la cornice sia composta di motivi scrupolosamente orientati verso il centro della tela. Fin qui essa è come una barca che traghetta lo sguardo sul quadro. Ma la cornice è anche un serto d’acque scintillanti che cinge d’immateriale bellezza la sua Citera o la sua Isola Bella; scrive Ortega: «la cornice dorata con i suoi fulgori acuti inserisce tra il quadro e il suo ambito reale una cintura di puro splendore. I suoi riflessi, come tante piccole daghe irritate tagliano i fili che senza volere tiriamo fra il quadro irreale e la realtà circostante».
Ecco allora che la cornice si trova a essere tirata in una questione annosa quanto la pittura, cioè quella del rapporto fra l’arte e la vita, tema dei due racconti di Ernst Bloch presenti nel volume. Lo scrittore ha ricavato il motivo dell’uomo che varca la soglia del dipinto da due leggende cinesi ma avrebbe potuto trovare modelli anche in narratori più prossimi a noi come in Gautier, in Régnier o nei romantici tedeschi. Sia Omphale. Histoire rococo che Arria Marcella narrano, infatti, storie d’affreschi animati e di esseri fantastici discesi dai quadri. Nel Toison d’or (1838), in particolare, c’è la descrizione di un giovane maldisposto verso il suo secolo che prelude al tipo dell’esteta decadente incapace di distinguere tra arte e realtà: «l’arte s’era impadronita di lui troppo presto, corrompendone l’animo e guastandolo», scrive Gautier.
Alla fine del diciannovesimo secolo questa deliziosissima patologia aveva infettato anche le cornici, che si andavano tremendamente rigonfiando. Nell’apparato illustrativo del libro sono offerti alcuni possibili decorsi del morbo, dall’Angelo della vita di Giovanni Segantini, al Giudizio di Paride di Max Klinger, alla Giuditta di Gustav Klimt, pur mancandovi alcune delle elaboratissime incastonature di Von Stuck che, per rigogliosa virulenza, avrebbero potuto figurare fra i gradi acutissimi. Nel primo dei saggi antologizzati (La cornice del quadro. Un saggio estetico, 1902), Simmel trova all’origine di questo fenomeno la confusione di due sfere che dovrebbero restare separate: «Un fraintendimento di principio di cui soffre la cornice è una conseguenza dei vizi che affliggono la mobilia moderna. (…). L’opera d’arte è una cosa per sé, il mobile una cosa per noi. Quella può anche essere individuale. Il pezzo di mobilia, invece, lo tocchiamo in continuazione, si mescola alla nostra vita e non ha quindi alcun diritto all’esser-per-sé. Certi mobili moderni, poiché sono l’immediata espressione dell’artisticità individuale, sembra si degradino se ci si siede sopra».
La situazione descritta da Simmel dette lo spunto a Loos per quel suo noto racconto-parabola A proposito di un povero ricco dove lo sventurato milionario, che ha commissionata la sua casa a un architetto sul genere di Josef Hoffmann, si ritrova a non potere indossare le proprie pantofole perché rovinerebbero l’equilibrio precostituito dall’arte. «Come il mobile, la cornice – scrive Simmel – non deve avere individualità alcuna, bensì uno stile. Lo stile consiste in uno sgravio della personalità»; ma in un appartamento simbolista la sfera dell’individualità estetica invade ogni cosa sicché la cornice, anziché isolare la dimensione artistica del quadro, vi partecipa baldanzosamente. Si potrebbe aggiungere che le avanguardie, contestando la distinzione tradizionale fra arte e non-arte, misero egualmente in discussione la cornice ma questa, come altre delle molte riflessioni suggerite dalla stimolante antologia, condurrebbe lontano e gli articoli, come i quadri, hanno bisogno di un limite per non dilagare, di una cornice appunto.