La rivoluzione femminile negli anni ’60 non poteva che incarnarsi in corpi cinematografici capaci di far convivere in armonia l’incanto delle fattezze con l’intelligenza della libertà e Il Festival di Locarno quest’anno, per le sue Historie (du) Cinéma, celebra tre icone assolute di quel mutamento radicale e irripetibile, tre grazie canoviane sinuose e ancora fulgide che rispondono ai nomi di Anna Karina, Faye Dunaway e Jacqueline Bisset. Se a Hollywood, agli albori degli anni ’60, soltanto Alfred Hitchcock e Billy Wilder tentavano piano piano di scardinare la pruderia neovittoriana che affogava i turbamenti nel Codice Hays, focalizzandosi sul corpo, sul femminile uso e abuso di esso e sulla fiera indipendenza lavorativa e del sentimento senza logiche, in Francia la musica era ben diversa. Tante gradazioni di donna hanno accompagnato l’eversione della Nouvelle Vague francese, in grado di fotografare alla perfezione la nuova identità femminile che si affacciava timida verso la fine degli anni ’50, e il bestiario dell’epoca ha visto sfilare, uno dopo l’altro, tanti diversi aspetti dell’universo muliebre, trovando nelle sembianze di alcune attrici il proprio apogeo. Come dimenticare la cerebrale sensualità, sublimata attraverso il volto e la voce, di Jeanne Moreau, la sfrontatezza del corpo atomico di Brigitte Bardot, la furbizia da pin up di campagna della recentemente scomparsa Bernadette Lafont e l’emancipazione privata e intellettuale di Emmanuelle Riva ma il caso di Anna Karina è stato l’unico percorso filmico in grado di sintetizzare e amalgamare alla perfezione tutte quelle sfumature femminine in pochi anni e in una manciata di film. Danese di nascita ma parigina a soli 17 anni, Anna Karina è legata indissolubilmente al suo compagno e demiurgo Jean Luc Godard ma la relazione tra i due non fu un semplice e frequente caso di musa e pigmalione, come per Marlene Dietrich e Joseph von Stenberg ad esempio, ma una relazione molto più simile a quella fra pittori e modelle. Anna Karina non esisteva prima di Godard, e, dopo la fine del loro matrimonio nel 1967, quasi cesserà di esistere come corpo filmico, come tante muse pittoriche dopo aver cessato di ispirare l’artista, fatta eccezione per una manciata di gioiellini dimenticati come In fondo al buio di Tony Richardson e Rendez-vous a Bray di André Delvaux. Godard, nei cosiddetti “anni Karina”, crea un vero e proprio culto attorno alla bellezza di Anna dove romanticismo e idealizzazione sono i motori dell’adulazione e queste caratteristiche sono rintracciabili in ogni personaggio maschile, a partire da Michel Subor in Le Petit Soldat, ma allo stesso tempo le regalerà ruoli così diversi e sfaccettati da renderla l’icona per eccellenza del periodo, cristallizzando nella celluloide quel prototipo femminino che incorpora sfrontatezza fanciullesca, ideali di libertà, dimestichezza con l’arte amatoria ma allo stesso tempo non riesce a evitare il dolore, l’incomprensione, la sofferenza per un amore non corrisposto. Locarno rende dunque omaggio ad Anna Karina con tre film tristemente invisibili da molto tempo e altamente esemplificativi dell’eclettismo di questa grande attrice: si comincia con Bande à part di Jean Luc Godard, film dove “Alice nel paese delle meraviglie incontra Franz Kafka”, citando il regista, per poi proseguire con Anna, film per la televisione del 1967 diretto da Pierre Koralnik che racconta le vicissitudini di un giovane pubblicitario ossessionato dalle fattezze perfette di una giovane sconosciuta, Anna Karina ça va sans dire. Una commedia musicale che mescola Nouvelle Vague e canzoni di Serge Gainsbourg, che produrrà contemporaneamente il primo disco della Karina, e colonna sonora del film, indimenticabile pastiche ye-ye trainato dal singolo Roller Girl. Dello stesso anno la seconda incursione italiana, dopo Le soldatesse di Valerio Zurlini, nel difficile adattamento viscontiano di Lo straniero di Albert Camus a fianco di Marcello Mastroianni. Questo ultimo anno magico per la Karina vede oltreoceano l’arrivo, nell’immaginario erotico e filmico, di Faye Dunaway, nuova incarnazione di ideali e libertà, capace di assorbire le peculiarità europee della “nuova donna”, coniugandole alle perfezione con il cambiamento, cinematografico e non, degli Stati Uniti. Le trombe della controcultura squillano senza sosta e il cinema americano oramai non può più ignorare il grido anti- establishment che si leva ad ogni angolo del Paese, né fingere di non vedere quanto la Francia sia riuscita a scombinare le care vecchie regole della rappresentazione. Gli studios concedono dunque spazio, alla ricerca di una rinascita soprattutto economica, a giovani registi e, per la prima volta, si tratta di studenti di cinema e divoratori di pellicole nelle cineteche, spinti dal desiderio di rinnovamento. Arthur Penn è uno di questi e tenta con il suo Gangster Story di far incontrare Pierrot le Fou e Scarface e sono proprio le rosse labbra di Faye Dunaway, che riceverà in Piazza Grande il Leopard Club Award,a pronunciare le prime parole di un discorso nuovo, finalmente libero di esprimersi in tutto il suo preoccupante disagio. Bastano pochi secondi per capire che qualcosa è davvero cambiato: è sufficiente un disarmante jump-cut su quella bocca gigante che riempie lo schermo, così lontana ma così vicina da quella di Orson Welles mentre pronuncia “Rosabella” per comprendere il desiderio e l’inquietudine di una donna frustrata, in gabbia che attende di librarsi nell’aria, proprio come il “nuovo” cinema. Faye Dunaway inaugura così una galleria decennale di ritratti moderni e anticonformisti che la vedranno impegnata in prove di drammatica sensibilità, Mannequin. Frammenti di una donna del compagno Jerry Schatzberg e Chinatown di Polanski, in adattamenti letterari scanzonati, il dittico di Richard Lester sui romanzi guasconi di Dumas, in blockbuster catastrofici, La nave dei dannati e L’inferno di cristallo, fino al culmine con Quinto potere di Sidney Lumet, film che la consacra con un Oscar e che idealmente concluderà la stagione d’oro sua e della New Hollywood. Altra premiata d’eccezione del Festival sarà Jacqueline Bisset che riceverà l’11 agosto ilLifetime Achievement Award – Parmigiani prima delle proiezione di Ricche e famose di George Cukor, al quale è dedicata la grande retrospettiva di quest’anno. Attrice sensibile, inglese doc spesso “pronunciata” e scambiata per francese, Jacqueline Bisset ha attraversato indenne oltre quattro decenni di cinema, lasciando a ognuno un ricordo indelebile di seduzione e finezza, a cominciare dal suo debutto nel capolavoro senza tempo di Richard Lester Non tutti ce l’hanno. Per lei, gli anni ’60 hanno il colore e il beat della Swinging London, in commedie spensierate come James Bond 007. Casino Royale, e l’azzurro delle onde del Free Cinema che la trascinano verso le spiagge grottesche del Cul-de-sac di Roman Polanski, suo compagno per un paio d’anni. Grazie a Bullit di Peter Yates, Jacqueline esplode definitivamente, cominciando il valzer di set europei (e non) che la vedranno approdare alla corte di François Truffaut in Effetto notte, di John Huston per L’uomo dai sette capestri e Sotto il vulcano – che verrà proiettato al Festival – e di tanti altri autori importanti, compresi i nostri Luigi Comencini e Mario Monicelli, che in lei troveranno “un’attrice straordinaria per i ruoli che ha interpretato e per il modo in cui lo ha fatto, icona di un cinema che associa bellezza a garbo, che ricorda quanto le sfumature siano efficaci nel creare un personaggio.”, come ha rammentato il direttore artistico del Festival Carlo Chatrian. Non resta dunque che ammirare l’opera di queste tre donne indipendenti, e uno sguardo più approfondito alla loro biografia non fa altro che confermare la loro assoluta libertà, ognuna sottilmente ribelle e sempre orgogliosa di una bellezza mai mortificata.