L’allestimento del Don Pasquale (1843) di Gaetano Donizetti in scena in questi giorni al Teatro alla Scala di Milano fa sfoggio di grande bellezza. Non solo per le prelibatezze musicali offerte all’orecchio dello spettatore, ma anche per quelle sceniche che rileggono l’amatissimo «dramma buffo» attraverso la lente di Bellissima e de La grande bellezza, specchi irresistibili e subito archetipi del contemporaneo italiano.
La regia di Davide Livermore, le scene dello stesso e di Giò Forma, i costumi di Gianluca Falaschi, le luci di Nicholas Bovay e i video di Video design D-wok restituiscono la Roma che Donizetti tratteggiò esoticamente per il pubblico parigino attraverso le miserie e le nobiltà della stessa dolce vita anticipata da Luchino Visconti e rimodellata da Paolo Sorrentino per il pubblico globale del cinema.

Così la vicenda si svolge dentro e attorno a Cinecittà: la casa di Don Pasquale è un set, Norina fa la modista negli studios, il boschetto finale è un frammento dei colli romani con ruderi antichi e industriali. Così le tresche del Dottore e del «vecchio celibatario», la cui inettitudine Livermore attribuisce all’invadenza di una madre appena morta, la «natura sùbita, impaziente di contraddizione» di Norina, le ingenuità sentimentali di Ernesto resuscitano il quartetto stereotipo della Commedia dell’arte (Pantalone-Scapino-Colombina-Pierrot), aggiornato attraverso i tipi della commedia all’italiana (con un occhio al neorealismo), che hanno i volti di Totò, Fabrizi, Sordi, Chiari, Magnani, Vitti e incarnano le fantasie di De Sica, Fellini, Matrocinque, Germi, Risi e Monicelli.

Ambrogio Maestri disegna un Don Pasquale infantile, capriccioso, poi disincantato e infine arrabbiato, con voce squillante e insieme morbida. Rosa Feola dà corpo a una Norina maliziosa, furba e arrivista attraverso le sinuosità di una voce che non conosce ostacoli: le colorature sono naturali, i trilli prolungati, le scale ascendenti e discendenti sicure, i momenti di furia sorretti da un’emissione sempre corretta. René Barbera è un Ernesto ardente e delicato, in grado di calibrare una voce sfogatissima in alto (notevole il Re sovracuto della cabaletta) con mezze voci, rallentando e pianissimi.

Il Dottor Malatesta di Mattia Olivieri ha un bel fraseggio ed è scenicamente brioso. Divertente il Notaro di Andrea Porta.
Riccardo Chailly dirige l’orchestra con entusiasmo, cercando di cavare da ogni angolo della partitura spirito e arguzia, staccando tempi sostenuti e vivaci, modulando volumi corposi e addomesticando le rare oasi di malinconica entro una cornice di pacata ironia.  Repliche fino al 4 maggio.