Il teatro grande di Pompei, di costruzione recente sopra gli scavi, continua ad avere un’aria in qualche modo «posticcia» rispetto alle meraviglie originali da cui è attorniato, fissate per sempre nel momento supremo dell’eruzione vesuviana del 79 dopo Cristo. Eppure, quasi a confermare la teoria del contesto in cui il teatro si insinua e che a sua volta rispecchia, l’enorme cavea diventa un giusto contenitore per l’indagine che la tragedia classica conduce da sempre sulle città e i suoi gruppi familiari, fino a svelarne le cose inimmaginabili che si nascondono dentro ognuno di quei personaggi. Almeno così succede alle Baccanti di Euripide, andate in scena lo scorso fine settimana con la regia di Andrea De Rosa (oggi e domani ultimo appuntamento della rassegna curata dal Mercadante di Napoli, teatro nazionale, con la bella Fedra di Seneca realizzata per Siracusa da Carlo Cerciello).

Il senso e la sensibilità della tragedia antica costituiscono forse l’ambito teatrale privilegiato di De Rosa, fin da quando mostrò i suoi primi lavori attorno alle Troiane in uno sdirupato paesaggio metropolitano a via Foria, e poco dopo con la memorabile Electra di Hoffmansthal, pulsante e ruggente dentro le cuffie di ogni spettatore. Qui, per condurci a incontrare le donne di Tebe che il divino Dioniso ha conquistato ed esaltato attorno al suo culto, l’immagine è in apparenza più semplice. Un re, Penteo, sta seduto quietamente come un qualsiasi spettatore, di spalle al pubblico che entra e si inerpica per le gradinate (tra saluti e rincorse e lamenti anch’essi di tono vagamente bacchico). Ai suoi piedi giace un vecchio steso, e poi ne sopraggiunge un altro: sono Tiresia l’indovino e Cadmo padre di Tebe, ovvero già i fondamenti del teatro tragico. Nella penombra dello spazio di fondo si agitano ad un tratto (quando il racconto comincia) figure scomposte, tra convulsioni anche apertamente sessuali, ma che senza nessuna volgarità mettono subito a fuoco il nucleo di quella «follia»: la riconquista del corpo, e di una coscienza del piacere che va a coincidere col potere, almeno fino a quando il bosco, e il dio, garantiscono libertà.

Abbastanza raramente il testo di Euripide prende corpo sulla scena con tanta naturalezza senza quegli aspetti morbosi o eccessivi che finiscono con l’avvicinarlo pericolosamente al ridicolo. Queste Baccanti sono sfacciate ed atletiche, ma anche molto consapevoli della diversità che si trovano ad attraversare, e della forza che può loro venire da quell’alito divino che le infiamma. Non in maniera ideologica o predeterminata, ma come puro istinto finalmente libero di agire. Per questo la bellezza delle donne che interpretano i loro personaggi brilla e seduce con tutti i loro tacchi alti, le vesti strappate, le forme esibite.

Da Irene Petris e Carlotta Viscovo che sono il coro, all’invenzione strepitosa (quanto filologica) di un Dioniso femmina, la bravissima Federica Rosellini che a Penteo e alla fasulla razionalità della politica tiene testa e si fa beffa. Anche se il legalitario re Penteo ha la solidità di Lino Musella, concreto e insieme ambiguo, uno dei migliori attori della sua generazione. Marco Cavicchioli è Tiresia, mentre Ruggero Dondi è Cadmo. A Cristina Donadio spetta invece la follia omicida di Agave, la regina che, adescata da Dioniso, celebrerà il suo massimo godimento nello sbranare, letteralmente, suo figlio Penteo, convinta di decapitare un leone. Anche se con molta finezza De Rosa e Musella non fanno nulla per nascondere il piacere e l’eccitazione di Penteo nel travestirsi anche lui da infuocata baccante, ufficialmente per andare a spiarle da vicino e magari reprimerle. Sentimenti, generi e ruoli dovevano essere già complicati nel quinto secolo ad Atene.