Se c’è una retorica consolatoria che si accompagna da sempre a quella degli «italiani brava gente», incapaci di compiere le nefandezze proprie semmai all’alleato germanico che in alcuni casi li avrebbe al massimo, per così dire, «contagiati», è quella relativa alla presunta moralità e efficienza del regime fascista, quando «i treni arrivavano in orario» e «nessuno rubava».

LE COSE STAVANO ovviamente in un altro modo. Ma, l’assenza di una «Norimberga italiana» che mettesse i responsabili degli eccidi compiuti dagli appartenenti al Regio esercito come dalle camicie nere nei Balcani, piuttosto che in Russia o nei territori africani sottoposti al dominio coloniale di Roma di fronte alle loro tragiche responsabilità, e l’immediato precipitare delle vicende nazionali nel contesto della Guerra fredda, hanno contribuito per lungo tempo – e forse definitivamente per una parte almeno dell’opinione pubblica – a stendere un pesante velo di omertà auto assolutoria su tutto ciò. E, allo stesso modo, a far si che si tramandasse fino ai giorni nostri la leggenda di un «fascismo onesto».

MA, PROPRIO come avvenuto per gli studi sui crimini di guerra compiuti durante il Ventennio, come nei diciotto mesi della Repubblica di Salò, una nuova stagione di ricerche sta proiettando una luce inedita sul corposo capitolo della corruzione e dell’affarismo che accompagnarono l’ascesa del regime e ne scandirono fino alla fine il funzionamento.
In linea di continuità ideale con opere di ampio respiro come quella di Salvatore Lupo (Il fascismo, Donzelli, 2000) che, raccontando il regime attraverso la sua ramificazione organizzativa anche periferica, hanno offerto un primo, sommario, inquadramento del tema e dei suoi protagonisti – si possono citare anche tentativi più affini all’indagine giornalista come Tangentopoli nera di Fasanella e Cereghino (Sperling & Kupfer, 2016) -, Il fascismo dalle mani sporche, il volume collettaneo curato da Paolo Giovannini e Marco Palla (Laterza, pp. 250, euro 22) propone una ricostruzione rigorosa del nesso inestricabile tra dittatura e corruzione.

L’APPROCCIO SEGUITO dai due storici intende in particolare illustrare – come evidenziato anche nella decina di contributi che compongono il volume – le modalità attraverso le quali «un vasto retroterra di corruzione, carrierismo e affarismo» non solo accompagnò l’ascesa al potere di Mussolini, ma costituì un elemento sistematico del funzionamento del regime. Così, solo grazie al rigido controllo esercitato sulla stampa, e più tardi all’utilizzo propagandistico di uno strumento nuovo come la radio, i fautori del nuovo ordine «morale» che aveva rimpiazzato il «decadente e corrotto» sistema parlamentare, poterono tacitare il moltiplicarsi delle voci sulle innumerevoli ruberie e gli altrettanto diffusi casi di malaffare che caratterizzarono il paese che cresceva all’ombra del fascio.

SE È ORMAI NOTO come anche uno dei capitoli più drammatici del Ventennio, l’uccisione nel giugno del 1924 del leader socialista Giacomo Matteotti, legasse insieme la volontà di ridurre al silenzio l’opposizione e il tentativo di occultare le informazioni sulla maxi-tangente pagata dalla compagnia petrolifera americana Sinclair Oil ad alcuni gerarchi – ma era coinvolto anche il fratello del duce, Arnaldo -, per assicurarsi il contratto di convenzione con lo Stato italiano, la lista degli affari sporchi che videro coinvolti fascisti di primo piano è pressoché sterminata.

SI POSSONO COSÌ passare agevolmente in rassegna i casi del ras di Cremona, Roberto Farinacci che, forte dell’essere stato uno squadrista della prima ora, intrecciò la sua professione di avvocato con una rete di corruzione e bustarelle così ramificata da coinvolgere alcuni dei maggiori gruppi industriali dell’epoca: cantieri navali, ferrovie, raffinerie di zucchero e lanifici. Allo stesso modo, le traiettorie politico-imprenditoriali dell’industriale Giuseppe Volpi, uno dei «padri» del futuro sviluppo della chimica a Porto Marghera, o di Costanzo Ciano, il padre del genero di Mussolini, Galeazzo, che fece di Livorno una delle più frequentate stazioni balneari dell’epoca – solo due delle figure descritte, accanto a quelle, tra le altre, del «fascismo stile camorra» di Carlo Scorza o ai «predatori fascisti dell’impero» -, evidenziano come il ruolo centrale, e inaggirabile, esercitato dal Partito nazionale fascista, ed in particolare da federali e gerarchi, abbia accompagnato nel segno della corruttela ogni passaggio della vita pubblica dell’epoca.

UNA «MODERNIZZAZIONE autoritaria» nel segno della bustarella che ha continuato a proiettare a lungo la propria ombra scura sul paese ma che, come fa osservare lo storico Paul Corner, rimanda ad una caratteristica «funzionale» della dittatura: quella di distruggere la sfera pubblica impedendo per questa via ogni verifica del proprio operato. Più che moralizzare la società italiana, il fascismo ne fu perciò non il primo, ma il più radicale e duraturo corruttore.