Persino un festival dal programma sempre più ricco quantitativamente e densissimo di capolavori, qual’è stato Il Cinema Ritrovato alla sua ventisettesima edizione, può avere la fortuna di trovare un film che ne diventa il centro, la più essenziale ragion d’essere: in altri termini l’opera che ha reso il viaggio al festival davvero indispensabile. Questo film c’è stato, ed è l’ultimo film diretto da Allan Dwan, Most Dangerous Man Alive, realizzato nel 1961 e rimasto inedito in Italia. Ve n’era stata una proiezione alla retrospettiva Dwan di Locarno, e i curatori della nuova retrospettiva di Bologna, Dave Kehr e Peter von Bagh, erano consapevoli del valore del lungometraggio. Per molti altri, anche straconvinti della grandezza di Dwan quali siamo da tempo, Most dangerous… però restava sconosciuto: introvabile in vhs, dvd (nonostante un bel cofanetto francese sul regista) o Blu-ray, mai trasmesso in televisione dalle nostre parti.

Non nasconderemo che la sua grandezza ci era in qualche modo attesa: la bellezza degli ultimi lavori dei grandi registi americani «classici» non poteva che trovare conferma nell’ultimo film di colui che da anni ci sembra esserne uno dei massimi esponenti, un regista che anzi supera la superficiale distinzione tra cinema classico e moderno. Perché, se a Bogdanovich va il merito di un fondamentale libro-intervista con Dwan, gli va anche il demerito di rinchiuderlo a cineasta primitivo, in una rassicurante «americana» per riferirsi al genere che dell’America dà una rappresentazione affascinante ma programmaticamente riconciliata. La vera riscoperta di Dwan appartiene alla più bella rivista di cinema mai pubblicata, Présence du cinéma, quella che ha scoperto quasi tutto quello che c’era da scoprire del cinema americano; però anche lì Dwan non rientrò nel massimo poker d’assi costituito da Lang, Walsh, Preminger, Losey, né presso il successore Skorecki raggiunse la passione per Jacques Tourneur, o presso altri quella per Ulmer. Abbiamo menzionato alcuni degli autori che Dwan riesce ad «assorbire», mentre oggi volentieri lo uniremmo con McCarey, Ford e Minnelli in un nuovo poker d’assi dei registi più indispensabili del cinema americano.

La grandezza dell’ultimo film di Dwan ha però superato la convinta attesa, trattandosi alla visione di un’opera che non può ormai che rimescolare tutte le carte della storia del cinema, e porsi con Dreyer e Rossellini al livello più alto, quello che rivela la ragion d’essere del cinema e insieme va oltre i confini del cinema. Il finale di Most Dangerous…, con il campo-controcampo tra lo sguardo d’amore della donna e le ceneri a cui è ridotto l’uomo dopo essere passato attraverso un corpo d’acciaio e atomico transumano, resterà ormai nella memoria come un sublime desiderio non realizzato del finale di Ordet di Dreyer; e, come ci siamo detti dopo la proiezione con Olaf Möller, questi due film si uniscono con The Devil Rides Out di Fisher nel massimo pensiero religioso e oltre la religione di cui il cinema sia stato capace. Opere che appunto del cinema rivelano l’intransigenza nella domanda di presenza dei corpi, a cui religione e filosofia non hanno potuto rispondere. Talché quell’alive del titolo è la più ironica delle riaffermazioni di una necessità voluta.

Alla personale Dwan di Bologna, seppur priva di uno dei massimi capolavori del regista (Driftwood ovvero Fiore selvaggio con Natalie Wood), non sono mancati altri lavori fondamentali. Il cinema muto del regista è uno dei più grandi, al livello di Griffith, e rende una personale del Dwan muto ormai indispensabile per le Giornate di Pordenone. Commedie belliche come Up in Mabel’s Room sono tra le massime espressioni screwball, ma di una consapevolezza stupefacente per come questo cineasta «classico» riesca a fare anche un metacinema che esplicitamente sfida la censura: e difatti nel cinema di Dwan troviamo le più belle scene di sesso del cinema americano, i suoi estremi sadomasochistici, la rappresentazione più serena dell’omosessualità (in Tennessee’s Partner) e nell’ultimo film una sfida voluta all’impotenza sessuale. The Inside Story è nel 1948 il più bel trattato di economia, ben oltre Capra, capace di riflettere su tutte le crisi economiche, anche quelle odierne. Silver Lode è nel 1954 la più esplicita resa dei conti con il maccartismo, al punto da poter dare al deuteragonista il nome McCarthy. Ma tutti questi splendori diventano solo la preparazione dell’ultimo suo lavoro, la più radicale rappresentazione dell’America mai vista. Basti dire che questo film sulla distruzione si apre con una battuta che si riferisce allo sterminio indiano e si conclude su uno sterminio che esplicitamente richiama i coevi napalm del Vietnam. Ci si chiede come sia possibile che questo progetto, che supera la fantascienza anni ’50 di Hawks e Siegel, non sia mai stato incluso in qualche rassegna del cinema fantascientifico. Com’è possibile la nostra abissale ignoranza di un’opera che va oltre il coevo Corman e già include i morti viventi del Romero sessantottesco e i gli ultracorpi di Cronenberg (peraltro canadese come Dwan)?

Com’è stato possibile non accorgersi che si andava oltre la grande fantapolitica coeva di Frankenheimer, Schaffner e Kubrick? Per Présence, che pur avendo scoperto Dwan non ha sottolineato la bellezza di questo film, è presumibile giocasse quella diffidenza verso i film della vecchiaia che ahimé si risente anche nel grande dizionario-summa di Lourcelles. Per i Cahiers du cinéma, allora lacerati da secondarie lotte intestine, il merito di aver posto allora al centro Ford o di essersi accorti di Lilith di Rossen dopo aver saputo cogliere l’importanza di Minnelli e Cukor nelle scelte della lungimirante linea di Domarchi e Douchet, non è stato purtroppo sottolineato dalla consapevolezza dell’esistenza di questo film. In Italia Most dangerous… non arrivò, ma forse solo Sandro Ambrogio e Giuseppe Turroni avrebbe potuto accorgersene. A quel poco che in questa cronaca abbiamo potuto dire vorremmo almeno aggiungere che, ; i colori rossi delle capigliature femminili vanno oltre lo splendore figurativo di Powell, e le sue «veneri rosse» (secondo un brillante titolo italiano) Rhonda Fleming e Arlene Dahl eccedono l’erotismo di Walsh. Dwan, da monumento del cinema americano, ha inoltre preferito percorrere il piccolo cinema della Republic, o di Benedict Bogeaus, genio tra i geni della produzione, anziché rinchiudersi in qualche major. Ha però saputo collaborare con un massimo operatore come John Alton. E se al posto di John Wayne doveva avere come attore John Payne, rendeva la sua «mediocrità» sublime. E la geometria del destino di [do action=”citazione”]a chiunque dei grandi si rapporti il cinema di Dwan, non ne risulta in alcunché inferiore. Egli fa proprie anche le bellezze più circoscrivibili del cinema classico: le molteplici finestre dentro i suoi lungometraggi vanno oltre il loro inabissare l’inquadratura in Sirk[/do]Silver Lode va oltre ogni teorema americano di Lang. E le sue storie trattano il rapporto tra moneta, oro e argento (tra Silver Lode e la «Goldie» Coleen Gray) meglio di un trattato di economia.

Il Cinema Ritrovato, oltre a darci quest’anno molti grandi film sovietici (altro territorio, nonostante Buttafava e Eisenschitz, di continue sorprese) e tutto Hitchcock muto (la cui Anny Ondra ci ha preparato all’intensa personale cecoslovacca di Pordenone), ha trovato in Dwan e in particolare nel suo ultimo capolavoro il gesto più alto. E non è stato davvero indifferente vedere questo cinema a 35mm (con tre splendide copie dalla collezione Scorsese): il digitale avrebbe tradito quel bisogno di corpo del cinema di cui il finale di Most Dangerous Man Alive è l’infinita, imperitura quintessenza.