Grande e giusto entusiasmo nel mondo perché il campione olimpionico keniano Kipchoge pochi giorni fa a Vienna ha infranto il record delle due ore percorrendo di corsa 42 km e 192 metri in un’ora, 59 minuti e 40 secondi. Dimenticata invece, se non completamente sconosciuta, l’impresa «agonistica» del quarantenne sudanese, anzi del Darfur, Abdul Rahman Haroun, che in solitaria ha percorso tra Calais in Francia e il Kent in Gran Bretagna, i 50 chilometri del Tunnel della Manica al buio, in un giorno e a piedi, stretto nei 90 centimetri residui tra la parete della galleria e il binario su cui sfrecciano i treni dell’Alta Velocità. E «non è agonismo, ma agonia, la stessa radice greca – commentò nel 2105 Oliviero Beha – come prova di una infinita tragicità».

ABDUL, che rischia di essere cancellato dalla nostra memoria, fino a quel momento non esisteva. Nonostante avesse attraversato disperato l’intero continente africano, finito come tanti nelle galere libiche, e poi mezza Europa, e avere «vissuto» nella giungla di Calais, non esisteva. Per ricordare bene a tutti noi la sua avventura «sportiva», Ernesto Milanesi ha scritto un prezioso oratorio teatrale, Binario vivo (Teatri Off Padova ed. con introduzione di Umberto Curi e tavole di Carlo Vitelloni, pp. 87, euro 10). Abdul fino all’uscita dal Tunnel nell’agosto 2015 non esisteva. Stava sospeso nel limbo lessicale con il quale dividiamo a bella posta gli esseri umani profughi da guerre e miseria – entrambi costruzioni della nostra storia e del nostro presente occidentale, coloniale e neocoloniale -, in migranti economici e non. Una divisione criminale. «Per quale motivo razionalmente definibile – scrive Umberto Curi nell’introduzione – una persona che cerchi di fuggire dalla prospettiva assai probabile di morire di fame debba essere considerata meno degna di aiuto rispetto a chi tenti di sottrarsi ai pericoli della guerra?», ma ai primi viene riconosciuto un diritto, quello dell’asilo – quando non li allontaniamo in mare verso i luoghi di fuga per non concederlo, quando non deleghiamo a milizie la loro gestione con scambio monetario – i secondi invece sono delinquenti puri, da stigmare eternamente come «clandestini». Dimenticando che spesso la condizione della miseria e della guerra vanno appaiate, dietro gli affari che presiedono ai due fenomeni tutt’altro che oggettivi ma provocati dalla rapina delle risorse, vale a dire dal nostro stile di vita occidentale. È così, la miseria culturale dell’Europa non regge all’impatto migratorio.

DUNQUE ABDUL, e milioni e milioni come lui, non esiste. Finché forte della sua immensa debolezza e solitudine, consapevole della sua disperazione senza via d’uscita, prova a entrare nel Tunnel della Manica. Non è Filippide, l’eroe ateniese che correndo da Maratona ad Atene muore per annunciare la sconfitta dei persiani e che «inventa» la maratona. Abdul cammina, non c’è eroismo, solo la sua distanza culturale «io parlo solo zaghawa» è l’assillante carta d’identità che ripete e senza annuncio di vittorie alle spalle, come un coro greco nel testo teatrale di Milanesi. Non è profugo come Enea anche se la guerra civile è ritornata nella terra dei Fur ma non ha con sé alcun destino mitologico fondativo di nuova città e civiltà. Fuggiasco salvaguardia la sua incolumità, la preziosa vita dagli altri disprezzata e dopo l’immenso continente africano, le prigioni in Libia, il grande Mare, lo stivale d’Italia, il continente europeo, si ritrova davanti al Tunnel della Manica che lo separa dalla salvezza. Lì, nella giungla di Calais, dove in tanti, rischiando la vita e con molte vittime, provano a salire sui vagoni dei treni appena rallentano. E falliscono. L’emozione del testo teatrale rende appieno lo scandire dei momenti. È il 4 agosto 2015, «Parlo solo zaghawa/ Ma adesso non ha nessuna importanza./ Cammino e basta/ Un passo alla volta e basta/ Un passo alla volta/ Con calma/ senza fretta/ Misurando il respiro/ E la forza delle gambe/ Ma anche dove metto i piedi/…». Lì Abdul, aderente alla parete, soffocando la bocca, scopre che i treni, che lui sente tutti arrivare, vanno a 300km orari invece che rispettare i 160, rischiando ogni emergenza.

PROSEGUE IL RECITATIVO di Abdul che in prima persona si racconta: poi dopo «sole» 16 miglia dentro l’Eurotunnel in qualche stanza/ hi-tech della Francia è suonato l’allarme/ Nessuno lo avrebbe immaginato/ Nessuno ci voleva credere…/ Eppure la telecamera inquadrava proprio me…». E invece l’incredibile è accaduto: c’è un uomo nel tunnel, un «invasore». L’allarme arriva dalla parte britannica: «Ecco ci siamo…/ Allarme rosso/ Un negro mette in pericolo la sicurezza/ Un negro, africano, pazzo in mezzo all’Eurotunnel». Un uomo che cammina spedito al buio, del quale dovrebbe interessare l’umanità e il coraggio invece che il passaporto, alla fine viene catturato dalla polizia britannica che, traendolo in arresto, gli domanda la ragione del suo «insensato» gesto. «Cercavo protezione e salvezza. Ho dovuto farlo, non c’era altra soluzione».
Subito altre sbarre, altro carcere. Ma la giudice Adele Williams che emetterà dopo cinque mesi di detenzione la sentenza, lo rimanderà libero riconoscendo così il suo stato di necessità: «È evidente che avendo egli viaggiato dal Sudan sua terra di origine fino alle soglie del Regno Unito, era in condizioni di disperazione quando prese la decisione di attraversare a piedi il tunnel della Manica». Di lì a poco ad Abdul, l’asso della Manica, sarà riconosciuto il diritto di asilo. Ricorda Umberto Curi che quando l’umanità prevale sull’ossequio formalistico della burocrazia presunta legalitaria «la disperazione può valere più di qualsiasi classificazione anagrafica». La disperazione come forza, capace di trasformare in occasione di vita perfino il freddo e buio metallo dei binari.