Prometeo deve aver rubato agli dei ogni segreto del fuoco ben prima di quanto pensassimo, se già alla fine del Paleolitico inferiore ominini vissuti a Qesem Cave, in Israele, sapevano utilizzare la cenere di legna per conservare cibo e pelli. Lo suggerisce uno studio pubblicato sulla rivista PlosOne e diretto da Cristina Lemorini, responsabile del Laboratorio di analisi tecnologica e funzionale dei manufatti preistorici del Dipartimento di scienze dell’antichità della Sapienza di Roma.

IL SITO, all’interno di una grotta distante 12 km dalla costa di Tel Aviv, fu occupato tra 400 e 250mila anni fa, tanto da lasciare una ricca stratigrafia di sette metri, piena di resti faunistici e di lame in selce realizzate per macellare animali, soprattutto ammotraghi e cavalli che, una volta uccisi, erano stati portati nel riparo. Evidenti sono i resti di un focolare, utilizzato a più riprese: la maggior parte delle lame proviene dal suo perimetro. Degli abitanti di Qesem Cave sono stati trovati, da ricercatori della Tau di Tel Aviv, solo alcuni denti. Troppo poco per un’attribuzione certa di specie.
Nel laboratorio di Roma, le lame sono state indagate attraverso un microscopio che ha permesso di osservare le trasformazioni della selce dovute al contatto con il materiale lavorato, isolando le tracce d’uso e i residui rimasti intrappolati nella pietra. «Abbiamo notato frammenti di tuberi e di pelli animali», spiega Lemorini.

NULLA DI ECCEZIONALE, se non fosse che tali resti apparivano mescolati a cenere. «Inizialmente credevamo si trattasse di una patina prodotta dall’alterazione causata del fuoco, ma dopo diversi lavaggi ci siamo accorti di un’anomala regolarità, tra l’altro non presente su tutti gli oggetti». A questo punto si è fatta strada un’ipotesi alternativa: le lame potevano essere entrate in contatto con sostanze manipolate appositamente con la cenere. Per provarlo, non restava che l’archeologia sperimentale.
«Abbiamo arrostito dei tuberi, li abbiamo conservati a lungo con successo nella cenere e poi li abbiamo tagliati», racconta Lemorini. Le tracce rimaste sulle lame sperimentali erano compatibili con quelle riscontrate sui manufatti reali, ma ciò non bastava a confutare un’obiezione ovvia: la cenere poteva essere il risultato del processo di cottura.

IL RISCONTRO DEFINITIVO è arrivato con la sperimentazione su pelli animali che nessuno avrebbe mai osato cucinare a fuoco vivo. In questo caso, l’unica spiegazione può essere la necessità di conservare.
«La cenere di legna ha delle caratteristiche igienizzanti perché diminuisce l’attività dei batteri», chiarisce Lemorini. «Molti articoli della Fao insistono su tecniche conservative simili praticate tradizionalmente da popolazioni asiatiche e africane, sottolineando l’opportunità di una loro riscoperta, visto che spesso sono andate perdute sotto i colpi di un’occidentalizzazione affannosa e inappropriata».
A Qesem Cave, quando non era possibile operare subito, si decideva quindi di deporre una pelle fresca sotto uno strato di cenere. Infinite le implicazioni di quest’intuizione. Senza cattivi odori, gli animali non erano richiamati nella grotta, gli insetti non accorrevano a frotte e non si formavano le larve. Piano piano il tessuto organico si disidratava: passavano settimane e, al momento giusto, si riprendevano in mano le lame per iniziare la lavorazione. Ominini del Paleolitico inferiore, che esercitavano una caccia specializzata e immagazzinavano tuberi, dimostravano pertanto un comportamento strutturato, riuscendo con il pensiero astratto a concepire un processo duraturo, inseriti in una struttura sociale in grado di tramandare tecniche elaborate.

«PIÙ SI VA NEL DETTAGLIO, più diventa chiaro quanto fossero stereotipate le nostre idee su una serie di capacità cognitive che pensavamo esclusive dei Neanderthal o, addirittura, dei Sapiens», conclude Lemorini, denunciando una sorta di specismo. Intanto, nell’ultimo mese, un articolo pubblicato su Nature Human Behaviour ha rivelato che, nella stessa epoca e area di Qesem Cave, gli ominini avevano compreso come scaldare il nucleo esattamente a 259 gradi potesse aiutare a produrre lame migliori.
Questi uomini, a qualunque specie appartenessero, non si limitavano all’accensione del fuoco, ma sapevano alimentarlo in un focolare, sfruttarlo per costruire utensili e conservare cibo. Ormai, si riteneva possibile controllare le forze della natura, intervenendo direttamente sulle sue cause. La liberazione, o condanna, di Prometeo era perciò già tradizione consolidata.

 

SCHEDA

Un graphic novel tratto dal best seller dello storico Hariri sui Sapiens

«Agli estinti, ai perduti e ai dimenticati»: tre dolenti aggettivi per la dedica che apre il primo volume del graphic novel Sapiens. La nascita dell’umanità, riadattamento a fumetti del bestseller scritto nel 2014 dallo storico israeliano Yuval Noah Harari. Pubblicata da Bompiani (pp. 248, euro 22), l’opera conta sulla sceneggiatura di David Vandermeulen, figura di spicco nel panorama belga della bande dessinée, che usa la rottura tra Brad Pitt e Angelina Jolie per spiegare la centralità evolutiva del gossip, e sulle illustrazioni del francese Daniel Casanave, esperto di divulgazione astrofisica, qui capace di citare nella medesima tavola Superman, i Flintstones e il leone della Peugeot, prima di sovrapporre un verdognolo Trump allo sfondo di un orso polare alla deriva.
Il fumetto, più duramente del saggio da cui è tratto, scruta l’arcaismo della nostra anima facendo leva sull’amarezza di una constatazione: fino a 50mila anni fa, un battito di ciglia in antropologia, la Terra era popolata da almeno sei specie umane; da 30mila anni siamo gli unici sopravvissuti, mentre anche i grandi mammiferi si sono estinti e le foreste sono cadute in miseria.
Le responsabilità dei Sapiens sono circoscritte nella contemporaneità, oppure il nostro è un peccato originale? È lo stesso avatar dell’autore a indagare. All’inizio attraverso il romanzo di formazione della nipotina Zoe, istruita in Inghilterra dalla biologa Saraswati e dal semiotico Dunbar, infine a New York, dove viene coinvolto nel processo Ecosistema contro Homo Sapiens, che lo conduce in Australia e in Alaska.
Nel mezzo, due prepotenti svolte per definire l’identikit dell’accusato. La rivoluzione cognitiva esplosa tra 70 e 40mila anni fa, durante la quale cominciammo a credere nelle pure fantasie, scoprendo l’Australia e inventando archi, aghi, culture.
Diversi i punti in cui Harari rimette ordine. Non siamo figli unici, ma abbiamo una famiglia composta da scimpanzé, gorilla, orango. I rapporti di causa e effetto tra noi e la natura sono ben altro da ciò che desidereremmo: non abbiamo imparato a cuocere con l’intelligenza, ma abbiamo aumentato il cervello grazie alla cottura dei cibi, riducendo per economia denti e intestino.
Resta però, tra il cielo stellato e la legge morale, l’urlo nero di una domanda insoluta: cosa ne è stato delle altre specie umane incontrate dai Sapiens? Se la teoria dell’ibridazione fosse giusta, potrebbero esistere differenze genetiche tra africani, europei e asiatici. Qualora invece risultasse che ci siamo sostituiti ai fratelli prevaricandoli, allora l’umanità immergerebbe le sue radici nel genocidio.  (f. gu.)