L’altezza, il peso, il sorriso enigmatico, la scuola dai gesuiti, i genitori morti quando era giovane, i compagni di classe, la moglie silenziosa, i figli discretissimi, la postura da gran signore, gli amici che nessuno sa o vuole dire chi sono, le foto con il carrello della spesa, ah ma toh, beve e mangia e si lava i denti come tutti gli altri, chi lo conosce bene ma non parla, chi lo ha visto solo una volta vent’anni fa… un po’ c’era da aspettarsela questa attenzione bulimica dei media nei confronti di Mario Draghi e del suo privato. In fondo, siamo un Paese che ama il pettegolezzo, la cronaca di tutti i colori, farsi i fatti degli altri soprattutto se sono famosi, e pure saltare sul carro del vincitore del momento.

PER LE STESSE RAGIONI erano prevedibili le lodi sperticate, le espressioni di sollievo e di giubilo, lo sdraiarsi ai suoi piedi come uno scendiletto buttando alle ortiche il senso della misura. Anche se potevamo aspettarcelo, è pure vero che potevamo risparmiarci questa ennesima esibizione di piaggeria, talmente stucchevole che stanno cominciando a girare immagini di Draghi sotto forma di santino della Madonna Pellegrina.
Non c’è niente da fare, ci piacciono i vincitori, i guru, gli uomini forti, siamo ancora lì a credere che qualcuno da solo possa cambiare tutto ciò che non va, neanche avesse la bacchetta magica, come se le sorti di un Paese dipendessero da un singolo individuo e non dalla collettività, dal sistema, dalla cultura e dai comportamenti di tutti. La cosa grave è che siano proprio i media a farsi portatori di questo atteggiamento e a gonfiarlo, nutrirlo, incentivarlo, salvo poi girare le spalle all’eroe di turno quando cade nella polvere, diventa scomodo o non è più di moda. Prima adoranti, poi smemorati.

GIUSEPPE VERDI, che conosceva bene i suoi conterranei, e il librettista Francesco Maria Piave in “Rigoletto”, tratto da “Le roi s’amuse” di Victor Hugo, fanno cantare al protagonista dell’opera: «Cortigiani, vil razza dannata/ Per qual prezzo vendeste il mio bene?/ A voi nulla per l’oro sconviene,/ ma mia figlia è impagabil tesor». È una delle invettive più potenti mai scritte e musicate contro il leccapiedismo, la piaggeria, l’opportunismo servile. Peccato per Rigoletto che quelli siano gli stessi atteggiamenti che lui stesso aveva riservato al conte di Monterone quando, a inizio opera, era arrivato a palazzo per accusare il Duca di Mantova di aver sedotto sua figlia. Monterone, indignato per le irrisioni del buffone di corte, scaglia contro Rigoletto un’altra invettiva memorabile: «Slanciare il cane a leon morente/ è vile, o duca… e tu serpente,/ tu che d’un padre ridi al dolore,/ sii maledetto!». Sappiamo come è andata a finire e quale drammatico prezzo ha pagato Rigoletto per aver obbedito fin troppo al suo padrone.
Oggi da noi i re non ci sono più, ma i cortigiani sì e se si pensa che Hugo scrisse il dramma teatrale nel 1832 e Verdi l’opera nel 1851, la categoria resiste purtroppo bene sebbene produca danni incalcolabili.
Il servile gronda difetti: mente, è pusillanime, liscia il pelo, punta sulla raccomandazione anziché sulle competenze, chiede favori, semina maldicenza per mettere in bella luce se stesso, non si espone, lascia il lavoro sporco agli altri, è vigliacco e insincero, salta in groppa alla tigre vincente alla prima occasione, pensa solo al proprio tornaconto. In sostanza il servile è un traditore e per primo dovrebbe diffidarne proprio chi se ne circonda, sempre che anche lui non sia a sua volta un cortigiano perché, se è così, non se ne uscirà mai.

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