La Repubblica ha ospitato recentemente il confronto tra due psicoanalisti, Lorena Preta e Vittorio Lingiardi, sul tema della «disforia» dell’identità sessuale – il sentirsi incastrati nel sesso/corpo sbagliato – in bambini prepuberi.

La disforia, che rientra spontaneamente nella grande maggioranza dei casi, è diventata fonte di ansia per molti genitori. Preta ha posto l’accento sui medici compiacenti che, somministrando farmaci capaci di bloccarne lo sviluppo, attuano una «sospensione» della definizione sessuale, preambolo di una «riattribuzione di genere». Collegando il disagio identitario a istanze inconsce non immediatamente decifrabili, che richiederebbero il tempo di un’elaborazione, Preta ha deplorato l’attitudine a offrire a un malessere individuale e sociale soluzioni tecniche.

Lingiardi ha messo l’accento sul rispetto della condizione individuale, invocando una psicoanalisi accogliente, non spaventata dalle metamorfosi delle identità sessuali. Piuttosto che privilegiare un modello di cura, in mezzo a concezioni contrastanti sull’origine del malessere, sarebbe opportuno seguire un approccio cooperativo, con un ascolto attento rivolto al singolo caso e alla soggettività.

La scienza, la filosofia, la psicoanalisi non sono, in effetti, canoni di vita. Ognuno deve sentirsi libero di gestire (con i mezzi a sua disposizione) il proprio modo di essere nel mondo. Tuttavia molte condizioni esistenziali sono oggi dettate dalla negazione del lutto e il corpo contraffatto si sta equiparando al corpo vero. Interferire con lo sviluppo psicocorporeo nell’infanzia, bloccandolo o modificandolo medicalmente, sulla base di convinzioni o comportamenti ancora da evolvere, che così si rendono definitivi, è un abuso. I genitori non devono reprimere il disagio identitario del loro bambino, né assumerlo come un dato di fatto (fato), ma cercare di comprendere cosa sta accadendo tra loro e lui, allargando, il più possibile, l’area del confronto.

La concezione dell’identità sessuale come combinazione tra anatomia e cultura, estromette l’essenziale: il legame tra psiche e corpo, la materia pulsionale del gesto erotico -che nessuna tavola anatomica può catturare ed è l’oggetto reale del condizionamento culturale. Ginevra Bompiani, intervenuta nel dibattito dalle pagine di questo giornale, ha parlato di intreccio tra immaginario e dato corporeo e dell’invenzione creativa che il primo opera sul secondo. La manipolazione sociale dell’immaginario annulla l’invenzione.

Bompiani ha colto il punto: la manipolazione dell’immaginario conduce alla manipolazione del corpo. Sostenere che l’anatomia non debba essere un destino, per poi compiacere la costruzione di un’anatomia fittizia (la peggiore delle normalizzazioni e il più irremovibile dei destini), è una forte incoerenza che lascia spazio all’onnipotenza: la creazione artificiale di stereotipie identitarie. Ha ragione Bompiani nel dire che la scelta identitaria contestata non deve diventare una corazza da indossare.

Si può rispettare, accogliere i transessuali, senza compatirli, né assecondare la loro visuale. Della loro condizione si può «prendere cura», se sono interessati, a partire dal reciproco lutto che è necessario fare. La dissociazione tra il dato corporeo e la rappresentazione psichica del proprio sesso interferisce con lo sviluppo del corpo erotico e limita seriamente la profondità del coinvolgimento e della soddisfazione sessuale. Una perdita significativa (più radicale nel caso dell’asportazione chirurgica dei genitali) che andrebbe elaborata insieme alla rinuncia alla nostra pretesa di una connessione senza falle tra corpo e psiche nella determinazione dell’identità sessuale.

Posta e risposta del 19 luglio 2019

«Essere transessuali non è una malattia da curare»

Spettabile Redazione,

Si susseguono da qualche tempo articoli sulle persone transgender che mancano completamente della visione e della parola che alla popolazione transgender appartengono. Il dibattito è condotto da specialisti della psiche e da pensatori che non hanno alcuna conoscenza diretta delle questioni di cui parlano e scrivono, ai quali occorrerà spiegare che transessualità, transgenerità e non conformità/incongruenza di genere non sono più patologie mentali per l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Infatti, durante la 72° Assemblea Mondiale della Sanità (Wha), in corso dal 20-28 maggio di quest’anno, l’Oms ha ufficialmente adottato l’undicesima revisione della classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari connessi (Icd-11), che entrerà in vigore il 1° gennaio 2022.

È accaduto, insomma, ciò che circa trent’anni fa era avvenuto per l’omosessualità, ma pare che professionisti e intellettuali vogliano continuare ad ignorare l’evoluzione che porterebbe un miglioramento alla vita delle persone transgender.

L’ultimo articolo pubblicato da il manifesto il 13 luglio scorso, a firma di Sarantis Thanopulos, «La «disforia» dell’identità sessuale», prosegue in un approccio patologizzante e la chiusura del pezzo appare al limite dell’imbarazzo: «Si può rispettare, accogliere i transessuali, senza compatirli, né assecondare la loro visuale. Della loro condizione si può “prendere cura”, se sono interessati, a partire dal reciproco lutto che è necessario fare. La dissociazione tra il dato corporeo e la rappresentazione psichica del proprio sesso interferisce con lo sviluppo del corpo erotico e limita seriamente la profondità del coinvolgimento e della soddisfazione sessuale».

Non c’è nessuna cura da prendersi, poiché noi non siamo malati, e non c’è nessun lutto, perché «l’essere transgender» non è una morte, neppure simbolica.

Oggi che finalmente siamo giunti a eliminare questa condizione da implicazioni «patologiche», ci aspetteremmo che se ne prendesse atto.

Il riferimento alla nostra soddisfazione sessuale, inoltre, ha un sapore paternalista e voyeuristico davvero sconfortante.

Crediamo sia mancata attenzione nella pubblicazione di questo articolo, che risulta gravemente offensivo nei confronti delle persone transgender, dietro l’apparentemente elegante maschera di un dibattito «alto» che in realtà nasconde una visione semplicemente oscurantista.

Chiediamo la pubblicazione di questa nostra replica perché crediamo che sia corretto consentirci di prendere parola se si parla di noi, tanto più quanto se ne parla in maniera inadeguata e irrispettosa.

Distinti saluti.

Dott.ssa Monica Romano, attivista, saggista e scrittrice
Dott.ssa Laura Caruso, facilitatrice gruppi di auto mutuo aiuto sull’identità di genere (donne transgender)

Hanno sottoscritto:
Lorenzo Pistorio
Jude Sandelewski
Cristina Leo
Gianmarco Capogna
Migi Sean Pecoraro
Beatrice Ulmi
Nicholas Barbieri
Capelletti Sofia
Etta Andreella
Antonella Veronica Vinciguerra
Silke Klemm
Laurella Arietti
Chiara L’Amazzone Caldonazzo
Luca Locati Luciani
Matteo Villanova
Fiorenzo Faravelli
Rita Pierantozzi
Graziella Bertozzo
Davide Rapana
Gherardo Milesi
Francesco Lepore
Susanna Polini
Mizia Ciulini
Mariella Fanfarillo
Massimo d’Aquino
Gioele Saronni
Gaynews
Maikol Mastrosanti
Edoardo Cofani
Barbara Toncelli
Vincent Vallon
Jayne Welch
Crstina Leo
Porpora Marcasciano
Valentina Coletta
Nicole De Leo
MIT – Movimento Identità Trans
Possibile LGBTI +
Esse Mera
Francesca Druetti
Beatrice Brignone
Sonia Conca
Giorgia Della Valle
Fiorenzo Faravelli
Silvia Molè
Giovanni Caloggero
Riccardo Messina
Simona La Spina
Nicole Corleone
Arcigay Catania
Catania Pride 2019
La Fenice 2.0
Giuseppe Civati
Mixed lgbti

La replica di Sarantis Thanopulos

Cara Monica, cara Laura, parto da una premessa.

Il mio intervento non è articolo, è una rubrica che si pubblica ogni sabato ed esprime le mie opinioni. Di esse mi assumo sempre la responsabilità di persona.

Fatta questa precisazione necessaria, passo al punto.

Non ho mai usato la parola patologia. Credo profondamente che ognuno di noi deve essere libero di sentire, pensare e disporre del proprio corpo nel modo che sente più appropriato.

“Prendere cura” non è “curare”, “guarire”. Ci sono transessuali che chiedono proprio questo: una psicoterapia che “prenda cura” di una sofferenza, in cui si riconoscono, e ciò non implica affatto la prospettiva che “cambino idea”.

Se mi consentite, la psicoanalisi (è il mio lavoro) non cura malattie, prende cura di sofferenze in cui i soggetti si riconoscono e basta. Detto questo, io penso che abitare un corpo in cui non ci si riconosce costituisca un limite. Un limite maggiore lo costituisce l’asportazione dei genitali.

Riconoscere i limiti (che tutti noi abbiamo) permette la libertà. Negarli favorisce l’onnipotenza e l’indifferenziazione.

Ma il riconoscimento del limite, quando riguarda la propria vita personale, spetta al singolo soggetto e non può essere imposto dall’esterno.

Esprimo il mio punto di vista con nettezza per sincerità. Questo mi consente di avere un rapporto leale con chi la pensa diversamente da me, fondato sul reciproco rispetto.

La mia riflessione potete ascoltarla o rigettarla. Se fosse pensata come un canone dovreste solo ignorarla.
Un caro saluto

Sarantis Thanopulos