«E persino fra i ruderi e le auguste antichità, abbassiamo la voce e camminiamo in punta di piedi». Con questo splendido «pianissimo», Alberto Savinio concludeva la sua voce sul «Passato» in Nuova enciclopedia. Non senza aver prima chiarito per quali fondanti motivi sia decisivo per ogni epoca e civiltà avere un corretto rapporto col proprio passato, basato sul rispetto e la comprensione.

A LEGGERE L’ULTIMO LIBRO di Valentina Porcheddu (Notizie dal passato. Cronache archeologiche del XXI secolo, Mimesis, pp. 291, euro 26) non si direbbe che questa elementare lezione sia stata ancora metabolizzata. Raccogliendo in un unico volume articoli ed interviste uscite negli ultimi dieci anni su il manifesto, l’autrice ci restituisce un quadro tanto variegato quanto profondamente unitario delle avventure e disavventure dell’archeologia contemporanea. Un’epica storica delle macerie; e del pessimo uso che spesso se ne fa. I luoghi geografici e culturali toccati dalla narrazione giornalistica si susseguono in un progressivo incupirsi dei contesti in cui i reperti dissepolti sono stati «gettati». E le tappe principali di questa inesorabile discesa agli inferi acquistano, ognuna a suo modo, un carattere emblematico.
Dal Colosseo a Pompei, dai giganti nuragici di Mont’e Prama al Partenone d’Atene, fino al Museo del Bardo di Tunisi e alla siriana Palmira: tutte queste «soste» si coagulano attorno a una figura problematica della società contemporanea. Come se gli uomini avessero tacitamente demandato alle opere d’arte, così inermi e così potenti, il compito gravoso di scontrarsi e di resistere alle peggiori nefandezze del mondo attuale. Eccone un rapido ma impressionante catalogo: il prevalere del più bieco profitto monetario a scapito dello studio e della conoscenza; i grandi reperti ridotti al rango di fenomeni da baraccone o peggio a involontari esponenti di un «hollywoodiano», pietrificato star system; le opere d’arte piegate ad usum Delphini della propaganda politica; l’inedita declinazione archeologica della spettacolarizzazione del dolore; la piaga del terrorismo internazionale; il delirio banalizzante dei nazionalismi esasperati e dei fanatismi religiosi; i saccheggi e le depredazioni; perfino le esecuzioni sommarie. E infine, in una parola che tutto spiega, la guerra.

IL DENOMINATORE COMUNE che attraversa le varie manifestazioni del generale degrado archeologico è ben individuato dalla studiosa nella pratica, da tempo invalsa in diversi ambiti del sapere, dalla scrittura storica alla sfera dell’informazione manipolatrice, di scindere con sistematica dottrina determinati singoli oggetti di interesse dal loro contesto d’origine, trasformandoli in entità «astratte», irrelate, incomprensibili. Dunque facilmente riducibili a merce. Laddove un certo tipo di educazione «umanistica» aveva insegnato ad apprezzare e a preservare la dimensione plurale della complessità, il valore delle stratificazioni culturali, i profili frastagliati, adesso ciò che si impone è l’appiattimento unidimensionale e l’impoverimento delle identità, individuali e collettive. L’archeologia non poteva rimanere immune dalle tensioni che percorrono l’intero corpo sociale.

IL RACCONTO DELL’AUTRICE passa al vaglio dell’analisi critica molte di queste tensioni. Ad esempio, ecco che, dopo decenni di addestramento sottoculturale alla tv del dolore, alla spettacolarizzazione della morte e del pianto, ci troviamo di fronte ad una sorta di «archeologia del dolore», il cui epicentro ideale è Pompei. Da qui infatti riemergono, con puntuale regolarità, sempre nuove figure mortuarie, dai visi stravolti dalla sofferenza, e buone da offrire in pasto al più macabro voyeurismo, affamato di facili sensazioni. Oppure, rimanendo in Italia, non si esita a strappare dal ricco contesto archeologico sardo, in cui cinquant’anni fa è stato rinvenuto, il gigante nuragico chiamato «pugilatore», costringendolo peraltro ad estenuanti e pericolosi tour internazionali, la cui ratio pare dettata più da motivazioni politiche di tipo propagandistico che da un progetto scientifico d’ampio respiro. Per non parlare dell’acme strumentale rappresentata dall’ipotesi, formulata nel 2009 ai più alti livelli politici, di esporre due giganti di Mont’e Prama insieme ai Bronzi di Riace in occasione del paventato G8 della Maddalena. Un tale abuso ideologico, così irrispettoso verso il proprio patrimonio artistico nasce da una concezione che per certi versi potrebbe ricordare, mutatis mutandis, quella per cui nel maggio del 1938, sotto una sapiente regia «cinematografica», al dittatore nazista alleato del regime fu imbandita la ricca mensa per gli occhi di una Firenze «fantasy», stravolta e irreale, quasi neogotica, con gli edifici moderni del centro cittadino camuffati da rivestimenti che rimandavano all’antica città tre-quattrocentesca.
Uno fra i maggiori pregi del libro è dunque quello di far comprendere al lettore come l’archeologia moderna sia una disciplina altamente complessa e delicata, capace di entrare in rapporti decisivi con gli ambiti cruciali della politica e dell’economia. Il caso dei fregi del Partenone certifica questi intrecci, in cui a volte statue e manufatti artistici vengono adagiati sui tavoli diplomatici internazionali quasi come «prigionieri» da giocare in uno scambio.

L’ATTACCO TERRORISTICO subito dal Museo del Bardo di Tunisi nel marzo del 2015 ci squaderna un altro abominio perpetrato contro i popoli e le loro «pietre». Ma se la follia ha un metodo qui la violenza jihadista sembra rispondere di nuovo alla suddetta logica riduttiva, che tende a cancellare la complessità del multiforme. Ed infatti colpisce le testimonianze artistiche dell’identità storica nordafricana preislamica, cartaginese e romana, che compone un puzzle multiculturale pressoché unico al mondo. E va anche sottolineato come la scelta compiuta tre anni dopo dalla direttrice del Museo di rimuovere dalle vetrine e dalle pareti le tracce dell’attentato si orienti, civilmente, nel senso opposto a quello dell’estetizzazione del dolore di cui si è detto prima.
L’ultimo caso particolarmente straziante è quello del sito archeologico siriano di Palmira, con le distruzioni di monumenti preziosissimi dell’epoca romana da parte dei soldati dell’Isis, unite a barbare esecuzioni. E anche qui, lo sdegno per l’infinita serie di orrori di cui questo luogo è stato reso suo malgrado testimone ci spinge a immedesimarci, in un esercizio di pietas paradossale e insopprimibile, nello sguardo di queste, come di altre, opere d’arte.