Prima Ciocca e poi Manfredi e Nencioni, sul manifesto, forse ancor prima Pennacchi, hanno dedicato tempo ed energie nel tentativo di intercettare la debolezza e/o forza-limiti e/o occasioni dell’attuale assetto economico e industriale dell’Italia. Da un lato è indagata la relazione produttività-innovazione-progresso tecnico (comprensivo dell’accumulazione di capitale), da un altro lato si riflette sulla perdita della centralità dell’investimento “innovativo” legata al laissez-faire e all’abbandono della programmazione. Qui proponiamo un diverso approccio metodologico.

Dove si colloca nella geografia economica internazionale il nostro sistema produttivo? La maggior parte dei settori produttivi italiani, tra cui figurano molti comparti centrali per il nostro modello di specializzazione (alimentari e bevande, tessile, abbigliamento e pelli), tende a posizionarsi in segmenti delle catene globali del valore più periferici e a più basso valore aggiunto (Istat, relazione su Next Generation Eu, Ngeu); altri settori conservano un certo peso specifico (macchinari), ma questi sono costretti (vincolati) da una intensità tecnologica (rapporto R&D/investimenti in macchinari) incoerente con una parte della domanda di macchinari del sistema economico.

Il cosìddetto sciopero degli investimenti, in termini sia di investimenti in macchinari sia nella spesa in ricerca e sviluppo, forse dovrebbe essere interpretato diversamente e purtroppo con maggiore crudezza. Proviamo a farci la seguente domanda: siamo proprio sicuri che la spesa in ricerca e sviluppo, così come gli investimenti in macchinari – per il momento trascuriamo gli altri investimenti che non sono comunque meno importanti – siano più bassi di quelli realizzati da altre strutture economiche con cui dobbiamo misurarci? Tali statistiche riflettono l’assetto complessivo del sistema economico mostrando numeri suscettibili di diversa declinazione.

La tesi che suggeriamo è quella di una forte coerenza tra investimenti e ricerca&sviluppo rispetto alla specializzazione produttiva. In altri termini, la spesa in ricerca e sviluppo, così come gli investimenti in macchinari, cioè la domanda di macchinari manifestata dalle imprese, sono relativamente in linea con la qualità della domanda delle imprese nazionali. Così come mostrato in altre e puntuali ricerche (Lucarelli, Palma, Pianta, Romano, Simonazzi etc.), a parità di specializzazione produttiva, le imprese nazionali non manifestano una spesa in R&D troppo diversa da quella effettuata in altri Paesi.

Non c’è dunque stato un vero e proprio sciopero della spesa in investimenti e in R&D. Per rendere più esplicita la riflessione, gli incentivi pubblici legati a Industria 4.0 per rinnovare il parco macchinari delle imprese, da un lato hanno permesso di sostituire l’esistente senza modificare la specializzazione produttiva – un modo per produrre le stesse cose con minori costi per soddisfare una “domanda di sostituzione” – dall’altra hanno favorito l’importazione di macchinari provenienti da altri Paesi, che servivano per soddisfare la domanda di beni e servizi a maggiore valore aggiunto e contenuto tecnico, esplicitando una pericolosa dipendenza tecnologica. Quanto è profonda questa dipendenza tecnologica? Molto, e forse troppo.

Ogni qualvolta si manifesta una domanda emergente – si pensi al Green Deal – è come se il tessuto economico la inseguisse, in quanto deve approvvigionarsi dall’estero del “sapere” (e forse anche del saper fare) per poterla soddisfare. Ciò spiega il ritardo italiano nella crescita del Pil; quando si lavora al margine dell’innovazione altrui, la crescita può essere solo più contenuta della media europea.

Se guardiamo alle principali variabili del sistema economico nazionale (Variato, Maranzano, Romano, Moneta&Credito) possiamo osservare come nel tempo il tessuto economico nazionale abbia lavorato ai margini della struttura dei costi, di tutti i costi (materie prime, peso fiscale, lavoro, etc.). La domanda di lavoro delle imprese è troppo distante dai livelli (alti) di qualificazione nostri studenti. La cosiddetta fuga dei cervelli ne è una perfetta esemplificazione. Abbiamo dei seri problemi e l’intervento pubblico è fondamentale, ma solo alla condizione di cambiare il motore della macchina senza fermarla.