Un mese e mezzo fa criticava le «contrapposizioni», i «pregiudizi» e «gli atteggiamenti frenanti». Un mese e mezzo fa ribadiva che «le riforme non sono rinviabili» e attaccava senza esitare «conservatorismi e corporativismi». Era la vigilia della manifestazione nazionale della Cgil contro il Jobs act, e il presidente Napolitano si schierava ancora e solo dalla parte del governo Renzi. Ieri altra musica. Lo sciopero generale, la seconda tappa della stessa battaglia sindacale, è adesso semplicemente «il segno di una notevole tensione nei rapporti tra sindacati e governo». Si conclude così, con un ricercato recupero di terzietà, una settimana di dichiarazioni importanti sul Colle. Mentre si avvia alla conclusione il mandato presidenziale, con le dimissioni annunciate.

«Mi auguro che si discutano sia le decisioni già prese, come quella della legge di riforma del mercato del lavoro, sia quelle da prendere per il rilancio dell’economia e dell’occupazione, e che si trovi la via di una discussione pacata», dice adesso il presidente della Repubblica. E non può essere casuale quel riferimento alle «decisioni già prese» eppure da «discutere», visto che il Jobs act andrà messo in pratica nei prossimi giorni con i decreti delegati. Se il governo – che si è lasciato grandi margini di manovra vista la delega in bianco – non tenesse in alcun conto le ragioni dei lavoratori, di certo non farebbe che alimentare quella «notevole tensione».

Il presidente non trascura le responsabilità del capo del governo, quello che «i sindacati passano il tempo a organizzare scioperi». Nel tono in cui Napolitano, in un colloquio con i giornalisti a Torino, spiega che «naturalmente il governo ha le sue prerogative e le ha anche il parlamento, e ha il suo ruolo da svolgere il sindacato» l’accento va sulle prerogative del parlamento. Quelle irrise dal presidente del Consiglio nella sua fretta di cambiare la Costituzione, senza che fin qui il capo dello stato lo abbia fatto molto notare. «Sarebbe bene – conclude ora Napolitano – che ci fosse rispetto reciproco di queste prerogative e che non si andasse ad un’esasperazione come quella di cui oggi abbiamo il segno che non fa bene al paese».

Preoccupato per le «tensioni», il presidente lo è sempre stato. La novità è che adesso non esclude Renzi dalla lista dei responsabili. Non si può dire che l’abbia tenuto fuori mercoledì, quando ha messo in guardia dai portatori di «smisurate speranze» o ha parlato dei giovani giunti al governo «senza alcun ben determinato retroterra»; o giovedì, quando ha criticato le polemiche con la Germania nutrite di «definizioni sommarie se non sprezzanti». Si sa che la decisione di Napolitano di anticipare le dimissioni ha complicato i piani di Renzi. Ma dietro quella decisione, oltre alla stanchezza, si legge adesso una diffidenza verso il modo in cui palazzo Chigi affronterà i dossier più delicati: dalle riforme agli esami europei alla successione al Quirinale. Una diffidenza tardiva.