La differenza nella destinazione delle risorse
Deficit sì o no Deficit si, deficit no. A poche ore dal varo della legge di bilancio, è questo il principale argomento che tiene banco sui media, nella discussione politica e, com’è «naturale» di […]
Deficit sì o no Deficit si, deficit no. A poche ore dal varo della legge di bilancio, è questo il principale argomento che tiene banco sui media, nella discussione politica e, com’è «naturale» di […]
Deficit si, deficit no. A poche ore dal varo della legge di bilancio, è questo il principale argomento che tiene banco sui media, nella discussione politica e, com’è «naturale» di questi tempi, nella propaganda. «Deficit o morte», «facciamo come in Francia», gridano dalle parti del governo. «Irresponsabili», è la risposta dell’opposizione allineata ai dettami dell’Europa tecnocratica. Al di là delle scelte che il governo, concretamente, farà nei prossimi giorni, forse è il caso di chiarire alcune cose su questo argomento. Partendo dai fondamentali.
Gli economisti «ortodossi» sostengono che lo stato, al pari delle famiglie e delle imprese, non devono spendere più di quanto incassano (dalle tasse), o, comunque, limitare fortemente il ricorso ai prestiti esterni per finanziare la spesa pubblica. Ma c’è un difetto di fondo in questa visione: gli stati, come peraltro la storia dimostra, non sono assimilabili alle famiglie ed alle imprese.
Quindi gli stati non possono «fallire»? Diciamo che il termine «fallimento», in questo caso, assume un significato diverso: non c’è nessun tribunale che può aprire una procedura fallimentare nei confronti di uno stato e metterne all’asta il patrimonio, ma lo «stato di insolvenza», se ufficializzato, può determinare conseguenze abbastanza serie per un paese (accesso al mercato, investimenti esteri, liquidità, ecc.).
Ovviamente, ci sono paesi e paesi. Gli Stati Uniti non sono l’Argentina, l’Italia non è paragonabile agli Stati Uniti. Contano il potere geopolitico e quello monetario, nonché i fondamentali macroeconomici. Ma anche il modo in cui è organizzato il rapporto, all’interno di ogni singolo stato, tra potere politico e autorità di politica monetaria (fino al 1988, ben oltre il famoso «divorzio», il nostro paese ha monetizzato gran parte del suo debito, mediante gli acquisti dei titoli di stato sul mercato primario da parte della Banca d’Italia).
Nel caso dei paesi della zona euro (e, per alcuni versi, nel caso dei restanti paesi dell’Unione europea), e di conseguenza anche dell’Italia, il problema è l’asimmetria tra una politica monetaria demandata ad una entità sovranazionale indipendente e una politica fiscale formalmente in capo ai governi nazionali, che, tuttavia, l’esercitano nel quadro delle restrizioni imposte dal patto di stabilità.
In questo modo, i paesi dell’eurozona (soprattutto quelli del sud) hanno «ceduto la loro autorità di bilancio ai mercati obbligazionari», per citare una nota economista americana, rendendo strutturali le politiche di austerità (in Italia sono state perfino costituzionalizzate). Cosa può fare un singolo stato europeo di fronte ad un attacco speculativo? Niente, se non rientrare nei ranghi e stringere la cinghia per «tranquillizzare i mercati» (è quello che fa rilevare lo stesso ministro Savona nel suo documento).
È da qui che discende il tira e molla nel governo italiano sul tetto del deficit, tra chi teme la «reazione dei mercati» e chi, pur temendola, ha bisogno di esibire qualche trofeo in vista dei prossimi appuntamenti elettorali (oppure di trovare un capro espiatorio). Ma troveranno un compromesso. Senza tirare troppo la corda, c’è da giurarci (l’ha fatto anche Renzi).
Peraltro, si parla di pochi decimali, al massimo di un punto di Pil, non di una manovra shock. Ed entro certi limiti Bruxelles potrà sempre recitare la parte della madre benevola, sensibile alle esigenze di un paese che ha necessità di prendere una boccata d’ossigeno. Il problema, negli spazi di bilancio che si riusciranno ad aprire, non è tanto, a questo punto, il quantum, bensì la destinazione delle risorse.
La prossima legge di stabilità, per intenderci, sarebbe davvero «del popolo» se aumentasse la progressività delle imposte e introducesse una tassa sui grandi patrimoni; se prevedesse maggiori risorse per la sanità e la scuola pubblica; se finanziasse un reddito «universale» di cittadinanza, senza rinunciare ad una politica per il pieno impiego.
Il rischio è, invece, che la «manovra coraggiosa», come l’ha definita il premier, finisca per premiare soprattutto chi ha di più e, perfino, i grandi evasori fiscali. Senza effetti «moltiplicativi» sulla crescita e senza ristoro per chi ha pagato maggiormente la crisi in questi anni.
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