I tedeschi dicono che siamo Sprachleib, siamo un corpo che parla. Che pensa parlando. Che germina parole dalla percezione, dai ricordi, dal dolore, dalle attese. Che produce parole come le stelle generano luce.
Una lingua è anche un sistema sintattico e grammaticale; è anche un formidabile strumento di comunicazione, una potente manifestazione dell’identità della comunità che la parla. Ma una lingua è soprattutto un modo d’essere fondamentale ed è per questo che ogni decisione politica sulla lingua è delicatissima, porta con sé conseguenze radicali. La sua difesa non è mai quella di un carattere nazionale ma costituisce la salvaguardia di una ricchezza collettiva.
La Giornata di studi che su questo argomento si svolse a Milano il 7 maggio 2016 ha affrontato proprio questo nodo culturale e politico. Gli atti del convegno sono stati ora pubblicati da Mimesis con il titolo L’idioma di quel dolce di Calliope labbro. Difesa della lingua e della cultura italiana nell’epoca dell’anglofonia globale (a cura di S. Colella, D. Generali e F. Minazzi, pp. 284, euro 24).

LA SUCCESSIVA SENTENZA numero 42/2017 della Corte Costituzionale ha dato ragione agli argomenti e alle tesi discusse in quella occasione. La Corte ha escluso, infatti, la legittimità di interi corsi di studio tenuti in una lingua diversa dall’italiano, con insegnamenti impartiti esclusivamente in lingua straniera. E questo al fine di «garantire pur sempre una complessiva offerta che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento».
Quella della lingua si conferma essere una questione inseparabilmente antropologica, sociale e filosofica. La decisione del Senato Accademico del Politecnico di Milano o il progetto Clil – Content and Language Integrated Learning – per le scuole rappresentano delle inconsapevoli (forse) ma concrete conseguenze dell’imperialismo culturale degli Stati Uniti d’America. Come afferma Luca Danzi «nei termini più vasti della formazione liceale, questa proposta risponde a uno stato di debolezza, perché evidenzia lo stato di subordinazione nei confronti di una lingua straniera considerata di maggior prestigio mondiale. Una subordinazione che si spiega con la superiorità scientifica, economica e politica propria degli Stati Uniti negli ultimi sessant’anni, che ha imposto quella lingua».

NEL XXI SECOLO «subalternità linguistica e disorientamento culturale» (Dario Generali) si esprimono nella servitù verso ciò che il collettivo Ippolita descrive efficacemente come «la presunta razionalità dell’economia», la quale in realtà «si basa sulla follia irrazionale della finanza, un insieme di pratiche oscure, espresse con parole pseudo-magiche come spread, futures, hedge fund, private Equity, junk bond, leveraged buyout. Non siamo lontani dall’esoterismo d’accatto, con la differenza fondamentale che gli apprendisti stregoni sono i padroni non occulti di questo mondo» (Ippolita, Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Meltemi).
Impartire interi corsi non linguistici in una lingua diversa da quella della comunità dei parlanti comporta l’inevitabile impoverimento dei concetti comunicati, ridotti a semplice nozione funzionale all’agire immediato invece che apprendimento problematico della realtà.

Le scellerate norme e proposte in ambito linguistico dei decisori politici italiani degli anni più recenti confermano così la loro povertà culturale e una grave insensibilità sociale, mascherata a fatica dietro un lessico economicistico. Il risultato concreto di tali decisioni consiste secondo Generali nel mancato apprendimento da parte degli studenti non soltanto delle «lingue, che saranno il più delle volte utilizzate in modo altamente semplificato e banalizzato, se non addirittura maccheronico» ma anche delle «materie insegnate in una lingua straniera, compresa poco e male».

L’inglese va studiato, certo, e va studiato al meglio possibile. Di questo meglio è parte fondamentale uno studio effettuato con intelligenza linguistica e dignità civile.