Per Maurizio Lazzarato autore de Il capitale odia tutti, fascismo o rivoluzione (DeriveApprodi) l’abbandono di qualsiasi prospettiva rivoluzionaria del pensiero post ’68 «ha mostrato che quando la rivoluzione sociale si separa dalla rivoluzione politica, essa può essere integrata nella macchina capitalista come nuova risorsa per l’accumulazione di capitale». La sconfitta politica storica che ne è conseguita è indissolubilmente legata a quella teorica che coinvolge tutto il pensiero che va da Foucault e Deleuze a Negri ed Agamben per restare in un registro italo-francese che corrisponde alle due patrie dell’autore.
Il problema è politico e Lazzarato ci ricorda che nel XX secolo masse senza istruzione hanno fatto rivoluzioni in paesi poveri e colonizzati, quali Russia e Cina, poi divenute potenze mondiali, mentre oggi il tanto celebrato General Intellect subisce nell’impotenza l’ascesa del fascismo 2.0. Cherchez l’erreur!

NEL POST ’68 sono stati usati strumenti politici e teorici del XIX secolo per trattare problemi del XXI, incapaci di prendere in conto movimenti (decolonizzazione, femminismo, ecologia) sui quali leninismo e dittatura del proletariato esercitano un fascino molto discreto…
Con le guerre mondiali e quella fredda la «produzione» marxiana diventa solo un momento della circolazione delle merci e poi, col neoliberismo, di flussi immateriali d’informazione. Qui la tesi di Lazzarato sembra vicina a quella del Capitalismo Cognitivo, che invece è criticato proprio perché, pur mettendo al centro l’attività cognitiva invece di quella industriale, commette lo stesso fatal error di Marx: un eurocentrismo che, al di là dello sfruttamento del lavoro salariato, non vede che il capitalismo ha un bisogno vitale di appropriarsi del lavoro non pagato e di risorse extraumane ed inorganiche.

La seconda parte del libro porta sulla disfatta della «macchina tecnica». «Le imprese della Silicon Valley hanno largamente contribuito a creare la situazione che ha permesso a Trump di prendere il potere». Le piattaforme globali, «tigri di carta» neuronali, hanno invaso il bio-ipermedia per farne una sfera sussunta dal neurocapitalismo con l’obiettivo di plasmare soggettività da integrare all’ideologia della competizione individuale e fra popolazioni, ma hanno soprattutto generato una grande «devastazione sociale e psichica».

LA COSTELLAZIONE di ribellioni – dal Cile all’Indonesia passando per Africa e paesi arabi – contro le condizioni di vita imposte ai paesi del Sud e l’ascesa del fascismo 2.0 al Nord costituiscono una dicotomia che prende origine comune dall’irrisolta crisi del 2008 e suggella il fallimento della strategia tecnologica neurocapitalista. Guardare allora, come fanno alcuni, a Silicon Valley come Lenin guardava alle officine Putilof e gli autonomi a Mirafiori negli anni ’70 è più che altro una fantasia da Assassin’s Creed. La governance neoliberista non esita invece ad optare per un reale fascismo 2.0 e l’autore, come i manifestanti della rivolta di Santiago, ci ricorda che la prima implementazione del neoliberismo fu quella dei Chicago Boys nel Cile di Pinochet.

IL SOTTOTITOLO, fascismo o rivoluzione, indica le alternative, ma mentre la prima è in corso, la seconda sembra lontana ed il libro non pretende indicarne le modalità. Cominciare a sviluppare una teoria coerente della necessità di una rivoluzione globale è però un primo passo verso il capovolgimento del credo depressivo di Mark Fisher che sia più facile immaginare la fine del mondo che non quella del capitalismo.