L’università italiana ha un futuro? È la domanda che quarantotto accademici dei Lincei, esponenti della più alta istituzione culturale italiana fondata nel 1603, hanno rivolto in una lettera pubblicata sul magazine online Roars.it alla ministra dell’istruzione, dell’università e della ricerca Stefania Giannini.

Il fisico Carlo Bernardini, la giurista Eva Cantarella, il vice-presidente emerito della Corte Costituzionale Enzo Cheli, lo storico Massimo Firpo insieme ai filosofi Tullio Gregory, Gennaro Sasso e Pietro Rossi, il matemarico Giorgio Israel con l’economista Giorgio Lunghini e il fisico Giorgio Parisi insieme ad una quarantina di colleghi hanno scritto in poche righe una delle più chiare, disinteressate («Siamo in pensione e fuori da ogni gioco accademico e dai ruoli attivi») e radicali denunce della strategia ventennale di riforma che ha travolto l’università e la ricerca italiane dalla riforma Ruberti nel 1989 ad oggi.

In questo lungo ciclo, sugli atenei è stato imposto un controllo politico sottoforma di «autonomia organizzativa». «È stata fraintesa la finalità ultima del dettato costituzionale che garantiva anzitutto e essenzialmente la libertà di ricerca e d’insegnamento da ogni possibile costrizione e controllo da parte del potere politico» scrivono gli studiosi. Netta è anche l’analisi dell’«ideologia» della valutazione ispirata ad una «mentalità aziendalistica». Questa governance è stata incubata dal 2007 con l’istituzione dell’Anvur da parte del governo di centro-sinistra (ministro dell’università Fabio Mussi), poi realizzata dal centro-destra berlusconiano con la riforma Gelmini nel 2008, oggi pienamente funzionante: «Il fatto che tutta la scienza di base sia trattata come un processo di tipo industriale, con tempi e criteri valutativi in termini di immediati risultati – scrivono gli accademici – mostra la profonda incomprensione, da parte degli autori di tali politiche, della natura stessa della ricerca scientifica».

Questa breve lettera, inviata a Giannini qualche giorno fa e aperta a nuove adesioni, risponde implicitamente alle critiche che gli ultras della meritocrazia potrebbero rilanciare. Questa visione economicistica e neoliberale della ricerca (si fa ricerca per l’impresa, e basta) è stata adottata a partire dal 2008 per imporre una «moralizzazione delle condotte che hanno macchiato la vita universitaria». Si parla degli innumerevoli scandali legati ai concorsi truccati, e alle spartizioni degli incarichi che hanno contraddistinto una parte non certo ininfluente dell’accademia italiana. Per gli accademici dei Lincei quella campagna mediatica, orchestrata sui quotidiani come Il Corriere della Sera o La Repubblica, ha giustificato ideologicamente il taglio di 1,1 miliardi di euro dal 2008 che ha costretto gli atenei a limitare disordinatamente la spesa per il personale, imponendo «un totale ristagno dei sistemi ordinari di reclutamento dei nuovi quadri universitari. È dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso che s’è aggravato il carattere sussultorio e irregolare dei meccanismi di reclutamento nelle nuove leve».

Una situaziione peggiorata dai tagli della Gelmini hanno aggravato la situazione, spingendo una generazione di giovani studiosi ad emigrare o lasciare la ricerca per altri lavori. «È un colpo mortale per la scienza italiana – termina così la lettera – Oggi sono in discussione conquiste che credevamo solidamente acquisite a fondamento della libertà della scienza e del futuro delle nostre società».